Halloween tra le righe. L'ospite e altri racconti di Amparo Dávila (Safarà editore)








“Lei sapeva che era troppo tardi per provare a scappare, nessuno riusciva mai a sfuggire al proprio destino. Poteva tentare mille cose e sarebbe stato tutto inutile. A volte, il destino si presentava di colpo, come la morte stessa, che un giorno arriva e non c'è più nulla da fare. Non poteva far altro che rassegnarsi alla sua triste fine. Convinta di quella fatalità, si lasciò condurre docilmente.” 

[da Tina Reyes, in L'ospite e altri racconti, Amparo Dávila, trad. di G. Zavagna, Safarà Editore, 2020] 


Dopo la Svezia occulta di Fager e il Giappone schizofrenico di Hino, il mio ultimo consiglio di lettura per questo Halloween ormai imminente ci porta di filato nel Messico onirico di Amparo Dávila. Un Messico sfumato nel sogno, in una sorta di nebbia perenne che rende labile ed estremamente sfilacciato il confine tra reale e soprannaturale, tra luce e oscurità, tra incubo e veglia. 

Le storie contenute in L'ospite e altri racconti sono costantemente in bilico tra questi opposti. Si tratta di racconti nei quali il perturbante può manifestarsi all'improvviso, come avviene in L'ospite, o, al contrario, filtrarvi lentamente, come attraverso una garza, ed è il caso di La cella, ma, in ogni caso, l'orrore è lì, e non ci si può fare nulla. 

Raramente, infatti, i personaggi di Dávila si sottraggono all'orrore. Piuttosto vi si abbandonano, come Ofelia si abbandona alla corrente. Magari all'inizio protestano un poco, ma si tratta di una reazione debole, superficiale. Fatta quasi per dovere. E alla fine di lasciano sempre trascinare dall'incubo, lo subiscono con una rassegnazione che ha del mistico. Lasciano che la vita li plasmi. Le plasmi, anzi, perché la maggior parte dei racconti presenti nella raccolta ruota attorno a figure femminili. 

Donne sposate a uomini freddi, indifferenti, egoisti. Che non capiscono, che non si interrogano. Che abbandonano e tradiscono. Superficiali, riservati, silenziosi. Sembrano vivere su due piani distinti della realtà. Come divisi da una lastra di vetro. Il femminile, che vede l'orrore fluire nel tinello di casa, e il maschile, che non ha occhi che per il concreto. Che si chiude, sordo, alle richieste di aiuto e tende a bollare ogni sintomo di paura come frutto di un'immaginazione febbrile, nervosa. Isterica. 

Le donne di Amparo Dávila non sono eroine moderne. Sono l'espressione di un femminile quieto, rassegnato, sfinito. Fataliste dalla nascita, si piegano come giunchi all'ineluttabilità del destino. Spossate dalla vita, schiacciate nel ruolo di figlie, mogli o madri. Sempre desolatamente sole. 

L'unica a sottrarsi alla condanna di un destino già scritto è proprio la protagonista del racconto che dà il titolo alla raccolta. Nel suo caso, però, l'atto di ribellione è possibile proprio perché non è sola di fronte all'orrore. È la comunione con un'altra donna a salvarla. Di tutt'altro tenore è la ribellione della protagonista di L'ultima estate che, sopraffatta dal senso di colpa e priva di un sostegno, non trova altra soluzione contro l'incubo che l'autodistruzione. 

In questo sta la bellezza dei racconti di Amparo Dávila. Nei suoi personaggi sconfitti, disperati e sopraffatti dall'irrazionale. Sta nel modo in cui il soprannaturale, l'irreale, si diffonde nel quotidiano. Poco alla volta, come un gas tossico. Lentamente ma inesorabilmente. Impregna ogni cosa. Rende deforme la realtà. L'impasta con l'incubo. E non c'è risveglio.

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