Yo ho, ho! (e una bottiglia di orrori assortiti, grazie) Le avventure di Arthur Gordon Pym di E.A.Poe



Le circostanze della recente improvvisa e triste scomparsa di mister Pym sono, grazie alla stampa quotidiana, già note al pubblico. È da temere che i rimanenti capitoli della sua narrazione, ch'egli aveva trattenuti per rivederli mentre gli altri si trovavano in corso di stampa, siano andati irrevocabilmente perduti nella catastrofe che ha causato la sua stessa fine. Ove, in caso contrario, il manoscritto venisse ritrovato, lo pubblicheremo subito.
[Nota a Gordon Pym in Poe. Opere scelte, Edgar Allan Poe, 2006, Mondadori]

È il 1838 quando Poe vede pubblicato per la Harper & Brothers quello che sarà il suo primo e unico romanzo compiuto: un'odissea per mare, sola andata, intitolata Le avventure di Arthur Gordon Pym di Nantucket. 

Nonostante i non entusiasmanti riscontri di pubblico e critica, Poe tornerà ad affrontare la forma lunga nel '40, con un'epopea western stavolta. Ma il povero Julius Rodman verrà abbandonato al suo destino nel giugno dello stesso anno, a circa metà del suo cammino attraverso le montagne rocciose. 

Verrebbe da pensare che il romanzo non sia, come invece sono la poesia, il saggio e il racconto, qualcosa che Poe sente affine. È piuttosto un esercizio di stile e un esperimento necessario in un'epoca in cui il pubblico chiedeva – e gli editori, di conseguenza, pretendevano – storie di più ampio respiro. 

È l'epoca in cui, in Europa, sta nascendo il feuilleton. Il romanzo di appendice attrae gli editori di riviste, che lo considerano un ottimo modo di far cassa e fidelizzare il proprio circolo di abbonati, ma anche gli autori, che possono contare su una fonte di guadagno pressoché costante e, contemporaneamente, cementificare il rapporto con i lettori. 

Poe ha i suoi racconti, ha le sue poesie e i suoi saggi. Ma i racconti hanno il brutto vizio di non offrire quella continuità che offrono, ai suoi pari d'oltreoceano, i romanzi a puntate. 

La prima pubblicazione di Pym avviene nel '37, sulle pagine del Southern Literary Messenger. 

Sul Southern, tuttavia, Pym ha vita breve. Poe si licenzia e il romanzo va in bonaccia finché, dietro suggerimento della Harper & Brothers e sollecitato dalle proprie necessità economiche, Poe non decide di rimettervi mano. 

Pym è un romanzo burrascoso, dal finale a ghigliottina. 
È un fiume in piena i cui affluenti possono essere individuati in articoli di giornale, stralci di cronache relative a affondamenti e disastri in mare, resoconti di viaggio, esperienze personali, manuali e, soprattutto, gli articoli e le conferenze di Jeremiah N. Reynolds, strenuo propugnatore della teoria della terra cava. Teoria, peraltro, già sfruttata da Poe per Manoscritto trovato in una bottiglia. 

E se le frequenti digressioni sul modo più corretto di stivare una cambusa, le interminabili annotazioni di latitudini e longitudini, le dissertazioni naturalistiche possono scoraggiare nella lettura, a stringere un po' i denti si finisce per ritrovarsi come Pym: trascinati senza scampo in un vortice dove l'orrore e il meraviglioso si uniscono in maniera fluida e stupefacente. 

A mano a mano che la storia procede, Poe prende il romanzo e lo modella a proprio piacimento. Lo trasforma, come la luna piena trasforma un uomo in un licantropo. Potrebbe limitarsi a offrire al pubblico quello che vuole: storie semplici, che frizzano di avventura quel tanto che basta da sentire l'odore del mare e il pizzicore della salsedine sul viso. Non lo fa. 

L'iniziale semplice racconto di avventura infarcito di spunti ironici si trasforma lentamente in un'opera via via più lugubre e spettrale, fatta di ammutinamenti sanguinari e navi alla deriva gravide di cadaveri che strizzano l'occhio a Coleridge; di gente ridotta alla sete e al cannibalismo; di tempeste che squarciano navi e membra; di squali micidiali che banchettano con i corpi degli amici più cari. 

La realtà stessa finisce con lo sfilacciarsi davanti agli occhi di un Pym sempre più esterrefatto, che per ben due volte affronta il terrore della sepoltura prematura, mentre ogni nave sulla quale si imbarca lo spinge di un altro miglio verso quel maelstrom inconcepibile che è il cuore torbido dell'animo umano. 

La realtà perde a poco a poco i contorni di familiarità, gli oggetti si fanno strani, gli animali bizzarri. Gli uomini non sono più tali* 
Pym, alter ego di Poe, si ritrova catapultato in un luogo straordinariamente alterato, un luogo che è al di là della realtà contingente, una terra aliena, animata da forze sconosciute e terrificanti e profondamente irrazionali. Forze che si concretizzano in un dualismo quasi zoroastriano tra un'entità bianca e una nera prodromi, se vogliamo, dei Grandi Antichi che verranno. 

Da racconto di avventura Pym muta in un romanzo quasi esoterico, dai risvolti trascendentali, la cui natura di viaggio ormai slegato da un qualsiasi legame con la realtà terrestre viene esplicitata da quel lento andare alla deriva in un mare sempre più caldo e opalescente, lattiginoso come gli occhi dei morti. 

Era chiaro che l'inverno polare si avvicinava; ma si avvicinava senza i suoi terrori. Per me, io mi sentivo intorpidito, nel corpo e nello spirito, come se fossi in sogno, e ciò era tutto.
[op. cit. p. 1151]

*a tal proposito dovrei forse aprire una parentesi sul razzismo esplicito in Pym, che emerge già durante la scena dell'ammutinamento ma, oltre a ricordare che stiamo pur sempre parlando di un romanzo scritto nel 1800, nel caso vogliate approfondire l'argomento posso consigliarvi Playing in the Dark: Whiteness and the Literary Imagination di Toni Morrison

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