[Aggiornamento. A febbraio di quest'anno la Sellerio editore ha finalmente riportato La notte della svastica e Katharine Burdekin in libreria. Sperando che si proceda oltre inserendo in catalogo anche The End of This Day's Business, vi lascio alla recensione di questo gran romanzo di fantascienza distopica.]
«D'altro canto, se una donna osasse camminare eretta come un uomo verrebbe punita. Mi stupisce», commentò il vecchio Cavaliere, «che non le abbiano ancora obbligate a camminare carponi, o che non abbiano asportato loro il cervello all'età di sei mesi. Ma alla fine, ci hanno sconfitto. Ci hanno distrutto facendo semplicemente ciò che abbiamo ordinato loro.»
[La notte della svastica, Katharine Burdekin, trad. di D. Della Bona, Editori Riuniti, 1993, p. 11]
Sono una donna, e non ho diritti.
Sono una donna, e vivo reclusa in un ghetto.
Sono una donna, e il mio unico scopo è partorire figli. Che siano maschi. Forti, futuri soldati del Reich.
Ci sono tanti aspetti che andrebbero valutati del romanzo di Katharine Burdekin. Un romanzo così intimamente politico la cui portata non può essere contenuta nel singolo post di un blog. Ma comunque siamo qui per provarci.
Quella della Burdekin è un'ucronia anticipatoria, sebbene nel suo articolo “Il sogno e l'incubo del IV Reich”, Gian Filippo Pizzo la consideri esclusivamente una “antiutopia politica”, in ragione del fatto che nel 1937 – anni di pubblicazione del romanzo – la guerra non è ancora scoppiata.
Pubblicato in Italia solo nel 1993 per Editori Riuniti, La notte della svastica è finito presto tra i fuori catalogo. Un peccato, perché quello che la Burdekin ci ha lasciato non è “solo” una distopia, ma un vero e proprio pamphlet femminista.
La sua è l'opera di un'intellettuale che con lucidità adamantina traccia il possibile futuro dell'Europa e della donna mentre, sullo sfondo di una pace apparente, si va apparecchiando il banchetto della guerra.
Nel 1937, quando la Burdekin scrive La notte della Svastica [tit. or. Swastika Night], la Spagna è travolta dalla guerra civile che vedrà, di lì a poco, l'instaurazione del regime franchista. Hitler siede ancora ai tavoli di trattative con l'Inghilterra mentre si prepara all'Anschluss. E l'Italia, che appena l'anno prima ha proclamato l'Impero dell'Africa Orientale Italiana, si avvicina sempre più alla Germania.
Nell'indifferenza generale, scrittori come la Burdekin o Čapek avvertono i pericoli insiti in quel gioco miope tra le democrazie e i fascismi europei. E tentano di correre ai ripari usando l'unica arma che hanno a disposizione: la scrittura.
Il mondo che la Burdekin immagina in La notte della svastica è una distopia nella quale la Germania ha vinto ormai da più di 700 anni una guerra che l'ha vista contrapporsi al resto del mondo. Un mondo ormai diviso tra due imperi di tipo feudale: quello tedesco da un lato, retto dai Cavalieri del Reich, quello giapponese dall'altro, gestito dai Samurai. Pur propagandando l'imminente scoppio di una guerra contro gli odiati nemici, le due superpotenze da quasi un secolo hanno formalmente stipulato un patto di non belligeranza.
Dal punto di vista culturale, la vittoria del nazismo ha portato a una completa riscrittura della storia. Tutti i libri sono stati distrutti e l'alfabetizzazione è ridotta a pochi individui, esclusivamente maschi, che hanno precise funzioni all'interno della società: i Cavalieri – che nel Reich sono anche sacerdoti della religione hitleriana - e i tecnici.
Ma c'è un elemento che predomina il tutto: l'assenza delle donne dal quadro generale degli eventi.
In La notte della svastica, in questo mondo completamente votato alla superiorità dell'uomo sul resto delle creature, le donne sono ridotte a larve prive di diritti. Equiparate ad animali da riproduzione, vivono confinate in ghetti sudici, dove attendono gli uomini che le stupreranno per partorire figli da donare alla Patria. Solo le femmine, gli scarti della riproduzione, vengono lasciate alla madri mentre i maschi, una volta raggiunti i diciotto mesi, vengono loro sottratti perché la donna non è in grado di educare, ma solo di generare.
La notte della svastica è una distopia feroce e incisiva. Non lascia spazio a spiragli di compromesso, come invece fanno i capi di governo davanti alle intemperanze hitleriane. Il nazismo, e con esso il fascismo, è una mostruosità. E la Burdekin ce lo mostra in tutto il suo orrore.
Tra le ucronie che sviluppano il what if di una vittoria nazista, quella della Burdekin è tra le più cupe. Il mondo che tratteggia è un immenso campo di concentramento. L'impero feudale nazista unisce e divide in blocchi i sudditi: da un lato le razze inferiori, delle quali le donne rappresentano l'elemento più infimo e abietto, dall'altra i tedeschi. I puri. Coloro che dominano l'Europa e parte dell'Asia.
Ma se l'elemento politico è fondante nel romanzo, è soprattutto per le donne che la Burdekin scrive.
La notte della svastica oltre a essere un'ucronia nazista è anche una brutale distopia femminista. Tanto più affilata perché l'autrice descrive il futuro della società che vede nel presente, nei cinegiornali e che legge sui quotidiani.
Immaginatevi il contesto. Come doveva subire, una donna come la Burdekin, le parate di Hitler o Mussolini dove ragazze e madri salutavano Fuehrer e Duce sventolando fazzoletti, lanciando fiori. Come doveva mordersi le labbra, alla vista di quanto delle battaglie fatte in ragione di una progressiva eguaglianza nei diritti stava per essere perso.
Neppure dieci anni prima le donne avevano finalmente ottenuto il diritto di voto in Inghilterra. Era stata la prima vittoria di una guerra ancora lunga.
Vedere quelle orde di ragazze festanti, donne che gridavano a gran voce l'amore per il Fuehrer, pronte a sottomettersi alla sua volontà, dovette esercitare sulla Burdekin una profonda impressione.
È per questo che in La notte della svastica le scene in cui le donne sono rappresentate (poco più che fagotti imbottiti, ingobbite, con i capelli rasati, talmente grottesche da suscitare la repulsione in più di un uomo) sono tra le più dure del romanzo. La Burdekin non concede grazia. E le sue donne sono ciò per cui hanno tanto applaudito: rifiuti della società, buone solo per fottere e generare.
È per questo, perché il nazismo ha avuto settecento anni per radicarsi nel mondo, come una profonda cancrena, che nel romanzo non esiste un solo personaggio femminile degno di nota. Tranne una vecchia, imbruttita dagli anni, che conserva in cuor suo un po' di cinismo. E una ragazzina, che per aver osato contestare una legge che riteneva idiota (l'obbligo per le donne di rasarsi i capelli), viene picchiata a morte, mutilata e lasciata ad agonizzare sul ciglio di una strada da altre donne, fedeli osservanti delle regole imposte dal Fuehrer.
Le donne che popolano quel mondo sono tutte creature agonizzanti, rattrappite e istupidite da una condizione che le vuole sottomesse e disprezzate. La società immaginata dalla Burdekin si è spinta così oltre che ormai l'unica relazione affettiva riconosciuta come degna per un maschio è quella con un suo pari. L'omosessualità nei popoli inferiori non viene punita, mentre è ai nazisti che viene richiesto, al di là delle proprie preferenze sessuali, di dare alla patria altri uomini.
Amare una donna è considerato non solo impossibile, ma una vera e propria bestemmia.
Del resto, in una società dichiaratamente maschilista la donna non può che venire relegata a compiti marginali. È talmente ritenuta inutile la presenza del genere femminile che si sta verificando un pericoloso squilibrio demografico e, nel perfetto impero nazista, nascono sempre meno bambine.
È in questo clima di puro disprezzo per il genere femminile, in questo mondo svuotato e idiota dove non ci sono libri, manca la fantasia e solo la musica sopravvive; dove non esiste più creazione, perché la creazione è stata annientata nel momento stesso in cui si è deciso di estirpare dall'uomo sentimenti e capacità di immaginazione, che si sviluppa la storia di Alfred.
Siamo alla stagnazione. […] Al flusso fecondo della vita emotiva e spirituale degli uomini che si muovono verso un obiettivo, per quanto stupido, che vada al di là di loro stessi, noi non prendiamo parte. Non sappiamo creare nulla, non sappiamo inventare nulla: che interessa abbiamo di creare, che bisogno abbiamo di inventare? Siamo Germanici. Siamo sacri. Siamo perfetti. E siamo morti.
[op. cit. p. 137]
Alfred, in pellegrinaggio in Germania, è un tecnico specializzato inglese da tempo scettico nei confronti del nazismo, che riceverà da uno dei Cavalieri l'ultimo retaggio del passato: un libro, scritto quando era già stata autorizzata la distruzione di massa di ogni opera scritta, e una foto che ritrae Hitler in compagnia di una ragazza. Una giovane appartenente alla Bund Deutscher Mädel, bellissima e assolutamente improbabile nel mondo creato dopo la radicalizzazione del Reich.
Chi leggerà il romanzo si troverà davanti un concentrato di maschilismo e misoginia difficile da digerire ma è proprio in quel palese disprezzo - dal quale non sono esclusi neppure i personaggi positivi della storia, il cui sistema di valori è troppo radicato per poter essere modificato nel giro di pochi giorni - che si insinua il messaggio più forte dell'autrice: l'uguaglianza dei popoli e il femminismo vanno di pari passo; non potrà mai esistere al mondo una società equa se per prime le donne non si riconosceranno come individui superiori e pari agli uomini. È nel riconoscimento della reciproca diversità e parità che si realizzerà, secondo la Burdekin, il pieno sviluppo di un mondo meno ingiusto. Il razzismo diventa quindi l'altra faccia del sessismo. Dal disprezzo per il genere al disprezzo per popoli giudicati inferiori il passo è infinitesimale.
- Pensate sia mai accaduto al mondo che una donna fosse orgogliosa di avere dieci figlie femmine e nessun maschio quanto un uomo di avere dieci figli e nemmeno una femmina?
- No! - esclamò il Cavaliere con un grido soffocato. - Naturalmente no. Per quanto ne so io.
- Allora il crimine fu commesso nella notte dei tempi, ancora prima che la storia avesse inizio.
[op. cit. p. 122]
Nella società attuale, scrive ancora la Burdekin, le donne sono un riflesso dell'uomo. Il modello imperante è quello maschile e a questo le donne si adeguano, tentando dove possibile di imitare l'uomo in violenza e fanatismo. Ma è questo l'errore principale, l'essenza dell'intera questione: finché le donne non si apprezzeranno per ciò che sono, non lotteranno per una parità che non sia adeguamento a standard imposti, non saranno mai libere. Né emancipate.
Per il modo in cui struttura il romanzo, la parte centrale del quale è costituita da lunghi dialoghi tra Alfred e Von Hess, il Cavaliere custode dell'ultimo libro (nonché discendente diretto di Rudolph Hess), la Burdekin non ha tempo di far sorgere una rivolta o istruire le donne dei ghetti. Non è questo il suo compito. Il suo obiettivo è illustrare con estrema durezza lo stato delle cose, e il modo in cui queste possono distorcere il futuro, strappando alle donne i pochi diritti faticosamente raggiunti.
Nel suo romanzo la Burdekin pianta il seme di una possibile rivolta, di una speranza di cambiamento. Ma è un seme che ha bisogno di secoli per diventare una sequoia. L'autrice lo sa, così lascia la storia nel suo presente, non tenta di tracciarne le possibili evoluzioni future. Quello che descrive è già il futuro. Un futuro nel quale l'umanità intera è destinata a perdere più di quanto immagina. Ed è contro quel futuro che uomini e donne devono lottare. Prima che sia troppo tardi.
A volte penso che le civiltà del passato, in tutta la loro inimmaginabile complessità e ricchezza […], penso che forse esse rappresentavano solo l'infanzia della razza umana; che questo abisso, questo spaventoso vuoto, possa paragonarsi all'appiattimento che a volte soverchia gli adolescenti più fragili, e che la nostra maturità sia ancora al di là da venire.
[op. cit. p. 149]
Note a margine.
Nata nel 1896 in Inghilterra, la Burdekin soffre dei canoni sociali imposti dalla società quando, terminato il college, i suoi genitori le vietano di iscriversi a Oxford come i suoi fratelli e le presentano l'uomo che diventerà suo marito. La Burdekin si sposa, si trasferisce in Australia con suo marito, ha due bambine. Ma il desiderio mai sopito di essere qualcosa di più di un cliché vivente la porta a scrivere. Il suo primo romanzo segna anche la rottura del matrimonio. Tornata in Inghilterra dalla sorella, lì conosce la donna con la quale trascorrerà il resto della sua vita. Una figura anonima e importante, alla quale dobbiamo molte delle informazioni sull'autrice.
In venti anni Katharine Burdekin scriverà venti romanzi, più una serie di opere minori, metà dei quali verranno pubblicati sotto lo pseudonimo di Murray Constantine per tutelare la propria famiglia dai rischi di attacchi politici. La vera identità dell'autrice di La notte della svastica verrà svelata solo nel 1985, grazie all'opera di ricerca di Daphne Patai.
Katharine Burdekin muore nel 1963.
Un romanzo postumo, The End of this Day's Business (scritto nel 1935 ma pubblicato solo sul finire degli anni '80) affronta il tema della parità di genere capovolgendo il mondo di La notte della svastica. Qui sono gli uomini il genere disprezzato, e ugualmente la società è impari e ingiusta. Il messaggio, come in La notte della svastica, resta invariato.
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