Vita e Morte.
Celebriamo la prima e scongiuriamo la seconda in modi bizzarri e superstiziosi. La fissiamo inorriditi nelle immagini che ci scorrono sotto gli occhi quasi quotidianamente, e ci auguriamo – con un ottimismo commovente – che non venga mai a porgerci la mano per portarci nel suo mondo.
Viviamo in un'epoca in cui si è scelto di rifiutare quella che forse è la sola legge immutabile dell'esistenza, relegando il morire a fenomeno eccezionale - tanto privato quanto innominabile.
E tendiamo a dimenticare che appena due secoli fa la Morte faceva, per così dire, parte della famiglia.
Tra le tante mode dell'epoca Vittoriana, la più curiosa è sicuramente quella delle foto post-mortem. Dai costosi dagherrotipi dell'inizio per arrivare alle più economiche stampe all'albume, le fotografie che ritraggono i cari estinti sul letto di morte suscitano da sempre un fascino che sta al limite tra il morboso e la semplice curiosità.
Le foto post-mortem vittoriane hanno catalizzato così tanto l'attenzione da essere diventate oggetto di leggende metropolitane, contraffazioni e
mistificazioni.
Eppure, prima ancora che Daguerre inventasse il processo fotografico, la pratica di ritrarre i defunti era già ben consolidata.
Al posto del fotografo il pittore, invece di una macchina fotografica pennello, tela e cavalletto.
A volte si trattava di opere realizzate durante gli ultimi giorni di vita del soggetto ritratto. Più spesso di dipinti eseguiti al momento, a poche ore dalla dichiarazione di morte.
I mourning portrait, appannaggio della classe più abbiente, avevano il duplice scopo di ricordare a chi restava la fragilità dell'esistenza e aiutarlo a sperare in una realtà che superasse il disfacimento del corpo.
Uno dei più famosi tra i ritratti post-mortem, di certo il più diffuso, è
quello di Virginia Clemm, la giovane moglie di
Poe, morta di tubercolosi il 30 gennaio 1847 quando non aveva ancora compiuto venticinque anni.
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Il dipinto immortala la donna in un atteggiamento di totale abbandono, con la testa reclinata sulla spalla, e solo gli occhi semiaperti suggeriscono il momento in cui si offrì a modello involontario per il pittore. Quando l'anonimo artista ne tracciò il profilo, infatti,
Virginia era già morta da ore e gli amici accorsi al suo capezzale fecero colletta pagarne il ritratto.
Certo, la pratica di ritrarre i cari estinti sul letto di morte ha una storia meno recente di quanto si potrebbe supporre.
Ne è un esempio il quadro che ha per protagonista Venetia Stanley, Lady Digby. Commissionato dall'addoloratissimo marito a Anthony Van Dyke, il dipinto ritrae Lady Digby nel letto dov'è morta all'improvviso, forse avvelenata dai cosmetici che usava, e ne cattura un ultimo sguardo prima che la terra ne soffochi per sempre la leggendaria bellezza. L'anno era il 1633.
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È però in epoca Vittoriana, soprattutto nei paesi a prevalenza protestante, che i “deathbed portrait” hanno una maggiore diffusione.
Nella logica protestante la morte non era qualcosa da nascondere in una camera, ben rinchiusa e sigillata, ma un elemento imprescindibile della vita stessa. La morte di una persona cara era un evento da celebrare in famiglia perché solo in questo modo, confortato dal calore e dall'affetto dei propri familiari, il morente aveva la certezza di lasciare il mondo in pace, nella grazia divina.
Per questo motivo i ritratti dei defunti non hanno nulla di morboso, neanche quelli più realistici e crudi nella volontà di mostrare ciò che resta di chi non c'è più. Al contrario, sono opere nelle quali la pietà e la speranza, il dolore e l'amore si combinano miscelandosi agli acquerelli e alle matite.
Anche se, come scrive Philippe Aries in Hours of our Death
“Ma non dovremmo essere ciechi di fronte alle contraddizioni che tale esaltazione contiene; perché questa morte non è più morte, è un'illusione prodotta dall'arte. La morte ha cominciato a nascondersi. A dispetto dell'apparente pubblicità che la circonda nel lutto, nel cimitero, nella vita così come nell'arte e nella letteratura, la morte sta celando se stessa sotto la maschera della bellezza.” [p. 473 – testo citato da Paul Goldman e Simon Cooke in Reading Victorian illustration, 1855-1875, p. 84, traduzione mia]
Come una modella la Morte viene interpretata dagli artisti, fatta oggetto di uno studio che la porta a liberarsi della carne appena intaccata dai germi della putrefazione e a mutarsi in spirito, nella sua immagine eterea e incorporea.
Così, in un dipinto dalla rara potenza come quello che ritrae Louise Vernet sul letto di morte, Paul Hippolyte Delaroche trasfigura l'immagine della moglie defunta in quella di una santa al colmo dell'estasi.
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E mentre un Monet annebbiato dal dolore osserva affascinato il modo in cui la Morte dipinge il volto di sua moglie Camille, traendone lo spunto per l'ultimo ritratto della sua prima musa
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Ferdinand Hodler segue in maniera ossessiva la sua amante Valentine Gode-Darel passo passo durante le ultime fasi della sua agonia, tracciando una sorta di memento mori in tempo reale.
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Al contrario, in uno slancio squisitamente estetico, Gustav Klimt scaccia la morte dal pennello ed esegue con estrema delicatezza l'istantanea finale della giovane suicida, con la testa poggiata sul cuscino del catafalco e circondata da fiori come una moderna Ofelia.
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fonte klimt.com |
Con l'avvento del dagherrotipo, pur cambiando il mezzo la Morte continua ad essere al centro dell'attenzione.
I lunghi tempi di posa rendono i cadaveri un modello perfetto da impressionare sulla lastra, e quando ai dagherrotipi subentrano le più economiche stampe all'albume, le foto post-mortem diventano ben presto un fenomeno di moda tra coloro che possono permettersi l'onorario del fotografo.
Ma ci vorrà del tempo prima che le fotografie soppiantino del tutto il ritratto perché, a differenza di quest'ultimo, le prime sottraggono alla morte ogni astrazione.
Henry Peach Robinson, pioniere di questa nuova forma d'arte, tenta perciò di dare alla morte su lastra una dignità da ritratto quando, nel 1858, inserisce degli attori nella fotografia che ha come soggetto una ragazza morta di tisi. Lo scatto, un collage di più pellicole intitolato “Fading away”, è il tentativo di ibridare la fotografia con il dipinto.
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fonte Wikipedia |
Il risultato, affascinante e drammatico al tempo stesso
nonostante i modelli siano tutti attori, viene però fortemente criticato dai suoi contemporanei che vedono nella fotografia un mezzo troppo intrusivo, troppo “reale” perché possa parlare il linguaggio dell'arte.
La morte impressa sulle lastre dei dagherrotipi è una realtà nitida, dai contorni esatti. Uno schiaffo violento là dove il dipinto accompagnava lo spettatore gradualmente nel mistero del trapasso.
La fotografia è un luogo chiuso, oltre il quale è impossibile andare. Un medium potente, capace di impressionare sulla lastra non solo l'immagine ma l'anima stessa del soggetto immortalato, la sua vera essenza.
Più intensa quando il defunto è solo, ripreso nel catafalco addobbato o sul letto circondato da cuscini trapunti di fiori, più intima quando nello scatto si uniscono i parenti nella celebrazione dell'ultimo commiato.
E se nei dipinti l'unico protagonista è il trapassato, punto focale dello spettatore che è costretto a interrogarsi sulla propria esistenza, nelle foto familiari, con i genitori che stringono tra le braccia un figlio appena morto, è il lutto a prendere il sopravvento.
È la riflessione sulla morte, quel momento di passaggio, di transito, verso un al di là saturo di mistero e speranza.
Con l'avvento della fotografia muta progressivamente il tipo di riflessione suscitata dalle immagini. Il lutto, il dolore familiare, l'amore che resiste a ogni disfacimento. Il ricordo. Tutti questi temi si fanno protagonisti mentre la Morte, il fatto in sé e per sé, si fa intima. Diventa qualcosa da custodire in un album o all'interno di una cornice. Qualcosa da tenere per sé. Gelosamente. Con pudore.
Lenta ma inesorabile, la porta ha cominciato a chiudersi sulla stanza dove chi è stato amato riposa nell'abbraccio dell'oscura signora.
Fonti.
La morte nell'arte. Astenersi impressionabili in Spettakolo.it
Inevitabilmente, visti con gli occhi di noi contemporanei, l'attività di ritrarre i morti non può che apparire morbosa, se non ripugnante. Mi chiedo cosa sia cambiato in tutti questi anni... forse la morte ci fa più paura di quanta non ne facesse ai nostri nonni? Mah... forse semplicemente ad un certo punto sono arrivate le guerre, e con esse gli orrori che sappiamo, e la gente ne ha avuto abbastanza...
RispondiEliminaè un tema complesso. Senza dubbio la Prima guerra mondiale ha dato il suo contributo nel voler dimenticare la morte, ma basta leggere il pezzo della Serao che parla della chiusura della Morgue di Parigi (siamo nel 1907), per vedere come la sensibilità verso la fine della vita fosse cambiata già prima di Verdun. Per la Serao la morte è una "augusta cosa" da onorare nel silenzio di una camera. Sul finire dell'Ottocento ci troviamo in un periodo di relativo benessere economico, un periodo in cui, finite le grandi rivoluzioni e controrivoluzioni che hanno praticamente cavalcato un secolo, la gente sente il bisogno di tranquillità e pace. E parlare di morte in un salotto, magari ammirando il trisavolo ritratto sul baldacchino funebre, non doveva certo rientrare tra le aspirazioni di un ospite. Siamo in piena Belle Epoque, una festa alla quale la morte non è invitata, dove tutti gradiscono recitare Il trionfo di Bacco e Arianna purché siano censurate le strofe del ritornello.
EliminaPoi, ovviamente, dopo le guerre mondiali la morte è scomparsa dai radar perché parlarne avrebbe significato ricordare un passato ancora troppo fresco e vivido nella memoria dei più. Oggi non è cambiato molto. C'è uno strano miscuglio di paura e vergogna che circonda la morte. E certe volte mi domando se il pudore su quel fatto estremo della vita non riguardi tanto gli altri, quanto noi stessi.
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