EDGAR ALLAN POE - Le lettere. La vita.



Se desiderate dimenticare che sono stato vostro figlio sono troppo orgoglioso per rammentarvelo ancora – Vi prego solo di ricordare che voi stesso alimentaste la causa che mi spinse ad abbandonare la vostra famiglia – l'Ambizione. Anche se non ha preso la strada che avreste voluto, non per questo è meno determinata. Richmond e gli Stati Uniti erano un ambiente troppo ristretto per me: sarà il mondo il mio teatro -
[lettera a John Allan – Virginia, 22 dicembre 1828]

Pochi uomini hanno suscitato tanto interesse attorno alla propria persona come Edgar Allan Poe. 

Dalla morte a oggi sono innumerevoli le biografie su un autore che è stato studiato, sviscerato, ricomposto e glorificato forse più delle sue opere. Non basterebbe un articolo a raccogliere tutti i racconti che lo hanno per protagonista. I romanzi. I film. Persino le serie animate.



Sotto questo aspetto Poe supera Lovecraft. 
Se per il solitario di Providence, infatti, l'attenzione è rivolta principalmente alle creature che ne popolano le opere, i fan di Poe sembrano attratti come falene da quella vita che assomiglia a un romanzo, e che come un romanzo si chiude. Nel più tragico, nel più brutale dei modi.

E forse è proprio la morte che Poe subisce, in quell'incomprensibile ottobre del 1849, ad averlo reso immortale. 


Al di là del valore, genuino e incontestabile, delle sue opere. Al di là del peso che ebbero, nello sviluppo della letteratura contemporanea occidentale (ma non solo, se ci fermiamo per un momento e pensiamo a nomi come quello di Edogawa Ranpo), storie come “La lettera rubata”, “Il pozzo e il pendolo”, “Il cuore rivelatore”, “Ligeia”, “Il Corvo”…

Ricordo quando da ragazzina, dopo aver divorato un libricino con alcuni dei suoi racconti – il primo letto, “Tre domeniche in una settimana”, fu e resta una folgorazione – subii il fascino di quest'uomo dalla vita sregolata. L'archetipo dello scrittore squattrinato. Dell'uomo vittima del demone che lo abitava. Il demone delle Storie.

Ecco allora che le Lettere qui raccolte dalla Lanati, in un paziente lavoro di recupero e traduzione, e pubblicate da Il Saggiatore, ci permettono di guardare dentro l'uomo, di leggerne il cuore, di sapere chi era davvero Poe, al di là delle biografie romanzate e del mito che gli è cresciuto intorno, come edera su una lapide. 
Poe epistolario Il Saggiatore

"il tremendo oscillare tra speranza e disperazione"
 
Poe è un recluso dell'America, scriverà anni dopo la sua morte Baudelaire. Prigioniero di uno spazio immenso dove, tuttavia, sono poche le occasioni di emergere, e i circoli letterari si chiudono come palizzate attorno a un accampamento di coloni per impedire l'accesso a chi dimostra di non essere all'altezza sociale ed economica di farne parte.

Pochi ma cari amici ne seguirono con affetto e amore le sorti avverse. Furono vicini a lui e a Virginia. Lo aiutarono nei momenti di profonda depressione, quando tutto sembrava perduto. E più volte contribuirono a sostenerlo economicamente o si impegnarono per permettergli di realizzare il suo sogno, un sogno che probabilmente ebbe John Allan come ignaro promotore. Il sogno di fondare non una rivista letteraria, ma la rivista letteraria. 
Caro signore,
Ho appena ricevuto la vostra gentile lettera del 21 u.s. e mi affretto a rispondervi.
È con grande determinazione che intendo avviare il Penn Magazine il prossimo primo gennaio. Le difficoltà che mi hanno ostacolato l'anno scorso sono svanite e ora nulla potrà impedirne il successo.
[…]
È  mia ferma intenzione metter su un periodico come non lo si è mai visto prima, almeno in questo paese.
[lettera a John Tomlin – Philadelphia, 5 ottobre 1842]

"La rivista più splendida di sempre"

Un obiettivo che inseguirà per tutta una vita, che vedrà parzialmente realizzarsi nel 1845, quando rileverà il Broadway Journal indebitandosi oltre ogni misura, e che tornerà poi a essere un miraggio appena tre mesi dopo, nel gennaio 1846
Tra bozze, prospetti, azzardati business plan, ricerca di finanziatori e sottoscrittori, Poe modella quella che avrebbe dovuto essere “la rivista più splendida di sempre”, il suo grande exploit nel panorama culturale a lui contemporaneo.
A proposito dello Stylus: - questo è il grande scopo della mia vita letteraria. Sicuramente (a meno che non muoia) lo realizzerò – ma non posso permettermi di essere troppo precipitoso. […] Desidererei fondare una Rivista nella quale gli uomini di genio e quegli asini degli uomini di talento possano combattere le loro battaglie ad armi pari. Ma, a parte questo, ho in mente progetti magnifici – purché possa vivere per realizzarli!
[lettera a Philip P. Cooke – New York, 9 agosto 1846]

Lo Stylus come chiave, anzi, grimaldello che gli avrebbe permesso di scardinare le porte di quella borghesia letteraria che lusinga e disprezza, che scandalizza con opere come “Berenice” e dileggia in racconti quali “Come scrivere un articolo alla Blackwood”.
 
Quella società letteraria che guarda con disdegno a quest'uomo fuori da ogni schema nel quale emarginazione fa rima con ambizione. 

La stessa che poi ne cerca i favori quando si tratta di ottenere una recensione per una delle innumerevoli riviste alle quale Poe presta la penna – una penna affilata come un bisturi, spesso lavorando per ripagare i debiti contratti con gli editori.
Negli ultimi tre o quattro mesi ho lavorato – duramente – per 14 o 15 ore al giorno […] Tuttavia, Thomas, non ho guadagnato un soldo e sono povero come sempre – eccetto che di speranza che, peraltro, non si può depositare in banca. […] Neanche il diavolo in persona è mai stato così povero. [Riferisci a Dow] che mi dispiace che, giunto alla vecchiaia, abbia preso a tallonare i suoi debitori – è una pratica diabolica e del tutto indegna di un “gentiluomo e letterato”.
[lettera a Frederick W. Thomas – New York, 4 maggio 1845]
"Neanche il diavolo in persona"
La cronica mancanza di denaro non gli permette di fare ciò che vorrebbe. Di gennaio in gennaio gli anni passano, e la pubblicazione dello Stylus viene costantemente rimandata a periodi migliori.

E mentre per Poe articoli e racconti spesso si trasformano in una effimera fonte di guadagno dal momento che, così come li vende, ha la tendenza a ricomprarli dai propri editori secondo un uso che a noi oggi pare inconcepibile, ma che doveva essere la norma nel XIX secolo, gli unici che sembrano guadagnare qualcosa dai suoi articoli, saggi, critiche, racconti e poesie sono i Putnam, i Lea, i Blanchard, i Carey, i Duyckinck… artefici di una realtà editoriale (non poi tanto distante dalla nostra), fatta di contratti che oggi definiremo “capestro”, di Diritti d'Autore elargiti a casaccio, di un mestiere che pare fondamentalmente ancorato all'idea che il letterato, per sua stessa natura, debba nascere aristocratico. Un soggetto che scrive per il piacere di farlo, non per il bisogno.
La Appleton le pubblicherà, lasciandovi gli eventuali Diritti d'Autore, ma obbligandovi a rimborsare qualsiasi perdita derivante dalla pubblicazione: e vi concederanno solo il dieci per cento dei guadagni ottenuti dopo le spese – sempre che continuino a pubblicare il volume. Nessun editore vi concederà condizioni migliori, e per voi sarà sempre più vantaggioso accettarle che non pubblicare il volume a spese vostre.
[lettera ad Anna Blackwell – Fordham, 14 giugno 1848]

Per Poe, al contrario, la scrittura è una necessità.

La sua sola fonte di sostentamento, dopo aver tentato invano, a più riprese, di ottenere un impiego che gli permettesse di avere sia il denaro che il tempo per dedicarsi alla composizione letteraria.
E forse su questa ricerca affannosa di un modo per dare alle stampe lo Stylus grava anche l'ombra enorme di John Allan, quel padre adottivo che morì senza lasciargli nulla, ricacciandolo nelle stesse condizioni dalle quali lo aveva sottratto a due anni: solo, povero e senza alcuna speranza di sopravvivere.
Lo Stylus avrebbe rappresentato per Poe un modo per sconfiggere il mostro, dimostrare a quell'uomo che non ebbe mai fiducia in lui e che lo ripudiò sul letto di morte di valere ben più di quanto credesse.
Se decidete di abbandonarmi – allora vi dico addio – mi avete abbandonato – Se così, sarò doppiamente ambizioso e il mondo sentirà parlare del figlio che voi avete ritenuto indegno d'attenzione.
[Lettera a John Allan – Virginia, 22 dicembre 1828 ]
Edgar Allan Poe


"Sarò doppiamente ambizioso"

Nelle lettere dell'adolescenza e della prima giovinezza c'è già tutto l'uomo che sarà.
Un uomo ambizioso, consapevole di vivere al di sopra della massa e di avere ogni diritto al successo, ma di essere al tempo stesso vittima della sorte avversa. Un uomo dal temperamento passionale, sopra le righe non soltanto quando l'alcol strozza il genio dell'inibizione portandolo a comportamenti che rasentano la follia.

Un narcisista per difesa personale, orgoglioso eppure autoironico; un uomo che parla con fierezza delle biografie a lui dedicate, e si picca di ritratti poco somiglianti, e di caricature che lo rendono più brutto di quello che è.

La vita di Poe è una sfida. Una battaglia cominciata quand'era poco più che ragazzo. Una vita randagia spersa tra bettole e taverne, dove imboscarsi quando i creditori lo cercavano. Una vita che vede presto nell'alcol un rifugio, un modo per curare quella malattia della psiche che gli striscia sottile nel cuore e che lo porta ad attraversare periodi di febbrile attività ad altri di cupa, funerea disperazione.
Sono infelice, e non ne conosco il motivo. Consolatemi, voi che potete – Ma fatelo subito – o sarà troppo tardi. Scrivetemi immediatamente, convincetemi che ne vale la pena – che è necessario vivere, e vi dimostrerete un vero amico. Persuadetemi a fare ciò che è giusto.
[Lettera a John P. Kennedy – Richmond, 11 settembre 1835]
"Ogni individuo è un abbozzo di un essere materiale futuro"

Un'irrequietezza non soltanto mentale ma fisica lo assorbe, spingendolo a viaggiare per il paese da Nord a Sud, da Est a Ovest, investendo tempo, energie e quel poco di denaro che riesce a racimolare dalla vendita dei propri articoli e dai prestiti degli amici per realizzare il suo grande obiettivo: diventare qualcuno alla faccia di chi non ha mai creduto in lui
Baltimora, Richmond, Philadelphia, New York dove si trasferisce nella primavera del 1844 assieme a Virginia, già a quel tempo malata di tisi, che lì morirà e dove lui resterà fin quasi alla morte.

A New York e poi nei suoi sobborghi, dove Poe vive gli anni più difficili e stimolanti della sua vita. Mentre allarga le proprie conoscenze e il Corvo batte le ali diffondendone ovunque il nome, Virginia si aggrava. Il denaro è sempre meno, l'indigenza costante. Eppure ribatte piccato all'articolo apparso sul New York Morning Express del 15 dicembre 1846, dove si dà notizia della malattia sua e della moglie e delle condizioni di povertà in cui vivono.
Sarei folle se negassi di aver bisogno di denaro, conseguenza inevitabile di una così lunga malattia – ma non è affatto vero che abbia sofferto di privazioni materiali oltre il limite delle mie possibilità.
[Lettera a Nathaniel P. Willis – New York, 30 dicembre 1846]

La menzogna è una delle carte che Poe gioca più spesso sul tavolo da gioco che la vita ha allestito per lui. 

Un baro disinvolto e astuto, che spesso abbellisce il proprio passato per negare perfino a se stesso la realtà della propria condizione.
Così, quando rileva le quote del Broadway, indebitandosi oltre misura, Poe giura a tutti i propri corrispondenti che sarà il suo biglietto per “conquistarmi un ruolo nel mondo delle Lettere”. Ma quando a gennaio dell'anno seguente la rivista chiude le stampe, in un post scriptum alla lettera a Mrs Sarah J. Hale ha già cambiato idea, e il Broadway viene declassato a “un accessorio temporaneo ad altri piani.”

Tuttavia è soprattutto nelle lettere alle donne, che dalla morte di Virginia riempiranno la sua corrispondenza, che la menzogna prende il sopravvento. La menzogna si trova nelle lettere a Sarah Helen Whitman, alla quale giura eterno amore salvo poi supplicare Annie Richmond di scioglierlo dal voto matrimoniale con la poetessa.
"Finché vivrò non potrò dimenticare né voi né la vostra gentilezza"
Nelle lettere alle donne la menzogna si mescola l'amore, un amore lirico e passionale che tracima in acuto bisogno di tenerezza, nel disperato tentativo di trovare riparo dalla vita che lo sta di nuovo soffocando, trascinandolo al largo della disperazione come una corrente di risacca.

Sono anche le ultime lettere di un uomo sempre più tormentato, avvitato in un vortice di autodistruzione che vede i primi segni di rottura definitiva agli inizi di novembre 1848, quando tenta il suicidio con il laudano.

Poe è esausto. Lo scrive a Maria Clemm con una lucidità che ferisce. Sente di aver concluso la sua “missione”, come il personaggio di un romanzo arrivato davanti all'immensa pagina bianca che nasconde la copertina.
Non ci resta che morire insieme. Non serve a nulla discutere con me ora; devo morire. Da quando ho finito “Eureka”, non ho più alcun desiderio di vivere. Non riuscirei a portare a termine nient'altro.
[lettera a Maria Clemm – New York Philadelphia, 7 luglio 1849]

Eppure c'è ancora spazio per un ultimo colpo di coda. Un uomo gli offre cento dollari perché curi le poesie della moglie e ne segua la pubblicazione; le conferenze sul principio poetico gli rendono bene. E per la prima volta si trova davanti la possibilità concreta di fondare una rivista che sia la sorella bastarda dello Stylus. 

Poe tenterà di raggiungere quell'ultima meta inutilmente, mettendoci tutto l'entusiasmo di cui è capace per poi finire bocconi su un marciapiede di Baltimora, la notte del 3 ottobre 1849, in preda all'ultimo delirio.
Il volume curato dalla Lanati, edizione riveduta e ampliata del precedente (e ormai fuori catalogo) Vita attraverso le lettere, è uno spaccato di vita americana, ma è soprattutto un modo per capire, fino in fondo, l'uomo che tutti quanti conosciamo attraverso un dagherrotipo e decine di biografie romanzate. 

Ed è proprio attraverso le lettere, più che dalla lettura delle sue opere, che Poe ci parla e scrive, inconsapevolmente, il suo più grande romanzo. Quello nel quale il suo cuore d'autore si snuda, senza remore né inganni.
Amore mio dolce, Mia Virginia cara! Nostra madre ti spiegherà perché sarò lontano da te, questa notte. […] conserva in cuor tuo tutta la speranza, e abbi fiducia ancora per un poco. Dopo la mia ultima grande delusione avrei perso il coraggio se non fosse stato per te […] Tu, ora, sei la mia unica e grande forza, ciò che mi muove ad affrontare questa vita difficile, vana e ingrata […]
Dormi bene e possa Dio concederti un'estate tranquilla, con il tuo devoto
Edgar
[lettera a Virginia Poe – New York, 12 giugno 1846]

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