"A morte il maiale!" E altre storie di animali finiti sulla forca




Francia, giugno 1494. Nel riassumere i capi d'accusa, prima della pronuncia della sentenza, il giudice Jehan Levoisier non può fare a meno di provare un brivido di disgusto. Il labbro gli si arriccia in una smorfia. Il verbale, reso molle dal sudore dei polpastrelli, si piega all'indietro.
 
"L'imputato", ruggisce e sistema il foglio, "non solo ha commesso il suo crimine bestiale durante la santa Pasqua, ma da allora non ha mostrato alcun segno di pentimento. Nessun accenno di rimorso. A testimonianza dei pii monaci che l'hanno preso in custodia, continua a comportarsi come se nulla fosse successo".
 
Prende un respiro. La voce è tutta un vibrato. Cerca con lo sguardo i coniugi Lenfant. Nomen omen, verrebbe da pensare. Lei, Gillon, è una macchia di nero. Il volto da contadina, più grigio che bruno. Una ciocca di capelli castani, sfuggita dallo scialle, se ne sta ritto e attorcigliato sulla sua testa come una vipera gonfia di veleno. Lui, Jehan, ha gli occhi bassi e fissi su qualcosa che gli sta davanti. Forse un grumo di polvere. O forse un pensiero. Il pensiero delle vacche lasciate sole nella stalla. Il pensiero della giornata sprecata. Il dolore cauterizzato, come si fa con un arto amputato.

Vale la pena ricordargli cos'è successo quel 30 marzo? Non lo sanno a sufficienza? E l'imputato? Lo sta almeno a sentire? Il giudice lo fissa e quello ricambia lo sguardo. Gli occhi piccoli e neri, nascosti dalle setole, non gli trasmettono niente. Arriccia il grugno. Starnutisce.
 
Il giudice sospira. "L'imputato, da sempre dedito a una vita di vagabondaggi, il 30 marzo di questo anno ha violato la casa del vaccaro Lenfant e di sua moglie, in quel momento assenti. Ha prima fatto scempio di alcune otri nella cucina quindi, ubriaco di cibo e di vino, si è introdotto nella camera da letto. Dove, in una culla di legno, dormiva la bambina".

La voce del giudice si alza di un tono mentre ricorda il volto maciullato dell'infante, i segni terribili lasciati sul suo corpicino dall'imputato, la piccola trachea spezzata. 
"Per questo". Un grugnito si leva dal banco degli imputati. Una pausa. Il giudice si lecca le labbra. Posa il foglio sulla cattedra e intreccia le dita. "Per questo,

“Noi, pieni di orrore ed esecrazione per il detto crimine, e al fine di dare un esempio e di preservare la giustizia, abbiamo dichiarato, giudicato e deciso che il detto porcello, (...), venga, per mano del boia, impiccato e strangolato su una forca di legno, in prossimità del patibolo” [Edward Payson Evans, Animali al rogo. Storie di processi e condanne contro gli animali dal Medioevo all'Ottocento, Edizioni Res Gestae, 2012, p. 128]


Il giudice Levoisier non fu né il primo né l'ultimo dottore in legge a doversi occupare di animali criminali nel corso della sua carriera. Né il maiale che aveva ucciso la figlia dei Lenfant fu l'unico caso di suino finito sulla forca invece che al macello.

In Animali al rogo, bestiario giudiziario scritto agli inizi del 1900 dallo storico Edward Payson Evans, i maiali possono anzi vantare il discutibile primato di animali più processati della storia. Solo nel saggio di Evans si contano ben 34 processi che li vedono come imputati. Il capo d'accusa più frequente è l'infanticidio, seguito a ruota dal sacrilegio. A volte, come nel caso trattato da Levoisier, i due crimini si assommano. 

Prendiamo il caso dei maiali di Mortaign. Nel 1394, un maiale era stato condannato a morte per aver sgranocchiato un'ostia consacrata. Qualche tempo dopo, sempre a Mortaign, un altro suino venne impiccato per aver ucciso a morsi un bambino e, per giunta, per esserselo mangiato di venerdì, giorno di astinenza dalla carne. 

Più spettacolare di altre, è l'esecuzione della scrofa di Falaise che, nel 1386, assalì, mutilò e uccise un bambino di pochi anni. Riconosciuto colpevole, l'animale venne condannato a una morte altrettanto brutale e perfettamente speculare a quella della sua vittima. 
Dopo essere stata insaccata in abiti umani, la scrofa fu trascinata nella piazza del mercato e issata sul patibolo dove, davanti a una moltitudine di esseri umani e maiali, le furono mozzati il muso e parte della coscia. Così sanguinante, la povera bestia fu quindi issata per le zampe posteriori sulla forca e lì lasciata a morire. In tutto, il processo costò "all'erario dieci soldi e dieci denari, oltre al prezzo di un paio di guanti nuovi per il boia".
L'affresco con la scena dell'esecuzione, che decorava il transetto occidentale della chiesa della Santa Trinità di Falaise, era ancora ben visibile nel 1820. Finché non è stato ricoperto da un doppio strato di bianco.

Varrà forse la pena ricordare che simili processi – e simili condanne – non furono un'esclusiva del Medioevo. 

Nel 1864 a Pozega, in Slavonia, una scrofa che aveva strappato a morsi le orecchie di una bambina di due anni fu impiccata, macellata e le carni gettate in pasto ai cani. Il proprietario, colpevole di negligenza, fu condannato a risarcire la famiglia della vittima e a provvedere alla dote della bambina mutilata. 

Due anni più tardi, toccò a una locusta finire tra le braccia del boia di Pozega. L'insetto, tra i più grassi di uno sciame che stava flagellando la regione, venne riconosciuto colpevole di saccheggio e, in virtù di ciò, affogato. Un atto più simbolico che giudiziario, va detto, visto che la morte di quella singola locusta non produsse effetti sull'ingordigia delle compagne.

Più molesti delle locuste di Pozega furono i punteruoli verdi di Saint Julien che, nella primavera del 1587, presero d'assalto le vigne del circondario. Interpellato dai vignaioli per porre fine alla questione, il tribunale ecclesiastico di St. Jean-de-Maurienne impiegò ben otto mesi per arrivare a un giudizio. 
Ai punteruoli venne affidato, come prassi, un procuratore della difesa, il quale si dimostrò particolarmente scrupoloso nel suo ruolo. Codice in una mano e Bibbia nell'altra, il difensore dimostrò l'assoluta legittimità del comportamento dei suoi assistiti che, in quanto creature di Dio, avevano il diritto di pascolare un po' dove gli pareva. E quando i vignaioli proposero ai punteruoli di spostarsi su un appezzamento di terra distante dai vigneti, l'avvocato si oppose con fermezza e disgusto, sostenendo che “il terreno era sterile e il cibo per gli animali, colà disponibile, non era né sufficiente né di adeguata qualità” [Evans p. 60]. 
Purtroppo, il verbale della sentenza è andato perduto. Ma è probabile che, essendo ormai dicembre, i punteruoli avessero nel frattempo già tolto il disturbo.

Meno capace fu l'avvocato difensore del branco di cani rabbiosi che, nel 1610, assalì e fece a pezzi un novizio francescano. Trascinati in tribunale, ai cani venne negata la possibilità di utilizzare la rabbia e l'evidente infermità mentale come attenuante per la loro aggressione. Furono tutti condannati a morte e giustiziati. 

Il rogo era la pena che spettava agli animali accusati di essersi congiunti carnalmente con degli esseri umani. Almeno in questo caso, animali e uomini si facevano compagnia sul patibolo. Quasi sempre. E se Guillaume Guyat, sorpreso nel settembre del 1606 ad accoppiarsi con la sua cagna, fugge dalle mani del boia un attimo prima che queste si chiudano per strangolarlo, lasciandosi dietro la fida compagna, non va altrettanto bene a Jacques Ferron. 

È il 1750 quando Ferron, sorpreso con le braghe calate nella sua stalla di Vanvres, viene condannato a morte per bestialità. Ma ecco che in soccorso della mula di Ferron, che avrebbe dovuto subire la sua stessa sorte, giunge il priore di Vanvres. In una lunga lettera firmata dai più rispettabili cittadini della città, il priore testimonia l'assoluta innocenza e irreprensibilità dell'animale. In quattro anni, sostiene il priore, quella mula non  ha mai dato scandalo e, anzi, si è sempre comportata come la più virtuosa tra le bestie. Se c'è stato un atto sessuale, conclude, la mula non ne ha colpa. I giudici si dichiarano d'accordo, e la mula viene prosciolta da ogni accusa.

Meno fortunato della mula di Ferron fu il gallo che a Basilea, nel 1474, venne trascinato in giudizio per “crimine contro natura”. Il disgraziato volatile, accusato di aver deposto un uovo, era sicuramente innocente. Ma, a dispetto delle evidenze anatomiche, i giudici furono unanimi nel condannarlo al rogo. Lui e il suo uovo. Che, come tutte le uova deposte da vecchi galli, era sicuramente un uovo magico; un uovo che recava al suo interno, in embrione, un anticristo bestiale. Lo si fosse lasciato covare da un rospo, o da un serpente, da quell'uovo sarebbe emerso un basilisco. 
È un vero peccato che nessuno, dei numerosi presenti all'esecuzione, abbia suggerito di tentare l'esperimento, prima di consegnare il gallo al boia.

1 commento

  1. Mi colpiscono sempre queste testimonianze del passato, purtroppo il nostro comportamento con gli animali non è certo cambiato dal medioevo ad oggi.

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