Non solo succhiasangue: i vampiri psichici di Florence Marryat e George Sylvester Viereck




Sono trascorsi due secoli da quando Il vampiro di Polidori ha visto la luce. Da allora, i vampiri non ci hanno mai lasciati. Freschi come un cadavere non ancora entrato in rigor mortis, continuano a essere tra le creature soprannaturali più citate – e sfruttate – in letteratura. Con #asanguefreddo li seguiremo in un viaggio che, dai Balcani, ci condurrà fino in Islanda, per scoprire se e come sono cambiati da quel lontano 1819.



“Esistono molti casi come questo al mondo. Casi di individui che si nutrono letteralmente delle vite altrui, come il mortale albero del veleno sugge la vita della sua vittima, sprofondandola in un sonno senza più risveglio” [Florence Marryat, Il sangue del vampiro, trad. di A. Frigo, Castelvecchi, 2010, p. 140] 


Siamo da sempre abituati a immaginare il vampiro con i denti affondati nella gola di una giovane esangue e, possibilmente, vergine. Il vampiro, soprattutto il vampiro letterario, è un ematofago che vede nel sangue altrui un prezioso ricostituente. Fosse vissuto nel XV secolo, probabilmente nessuno avrebbe avuto da ridire sulle sue abitudini alimentari dato che, come scrive Camporesi in Il sugo della vita

L'altra strada da seguire per far retrocedere la marcia degli anni, si riteneva fosse quella d'attingere energie nuove bevendo e succhiando il sangue di giovani freschi e rubicondi [Piero Camporesi, Il sugo della vita, Il saggiatore, 2017] 


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Se, dunque, il sangue è l'elemento che più di tutti contraddistingue il vampiro letterario moderno, va anche detto che esistono vampiri che del sangue possono farne benissimo a meno. 

I vampiri psichici, checché ne dica LaVey, sono creature figlie del XIX secolo: il secolo della parapsicologia, dello spiritismo e delle madame Blavatsky. 
Per nulla attratti dal sangue, si tengono alla larga dal cimitero e dalla fossa. Ciò di cui si nutrono è più sottile dell'emoglobina. Hanno qualcosa del succube e dell'incubo, pur non potendo vantare discendenze infernali. Sono esseri umani con appetiti speciali. Sono come calamite in una boccia piena di frammenti di vetro. 

Il sangue del vampiro Florence Marryat


Il primo vampiro energetico della letteratura nasce lo stesso anno di Dracula, nel 1897. Si chiama Harriet Brandt ed è figlia d'inchiostro di Florence Marryat, scrittrice piuttosto nota in epoca vittoriana, con all'attivo qualcosa come più di ottanta opere tra romanzi e saggi, appassionata di occultismo e medium essa stessa. 

Della Marryat, qui da noi, sono state tradotte solo due opere: There is no Death e questo The Blood of the Vampire, portato in Italia per la prima volta dai fratelli Treves nel 1916 e riproposto recentemente dalla Castelvecchi. 

Ma non lasciatevi ingannare dal titolo, perché per tutto il corso del romanzo non verrà versata neppure una goccia di sangue. Harriet Brandt non si nutre di sangue. Eppure è una vampira. Lo è negli atteggiamenti languidi e seducenti – quegli stessi che, pochi anni più tardi, daranno vita alla figura della vamp – lo è per le conseguenze della sua amicizia, sempre mortali. Harriet drena le energie di chi le sta accanto. Se ne nutre, in maniera inconsapevole, portando chi l'ama a una lenta agonia e a una morte inesorabile. Questo, almeno, è quello che si dice sul suo conto.

Harriet Brandt è l'incarnazione dello spirito della consunzione. È veleno. Innocente come può essere una fiala di cianuro, incolpevole del male che può arrecare.


 
Il romanzo di Marryat è un'opera visceralmente vittoriana. Lo è per ambientazione, caratterizzazione dei personaggi, modo di narrare. È un romanzo gotico, ma di un gotico soffuso e quasi impercettibile, che si palesa soprattutto nel momento in cui l'azione si sposta nella Casa Rossa, la dimora fatiscente e piena di segreti, di polvere e di macchie di muffa di madame Gobelli, una pseudo-La Voisin dai modi rozzi e grotteschi. 

Quello che Florence Marryat mette in scena non è tanto un romanzo soprannaturale quanto, piuttosto, un confronto serrato tra due modi di vivere la società: da un lato abbiamo i rispettabili Pullen, pieni di buon cuore e pregiudizi. Dall'altro c'è Harriet, “vampira” nel doppio significato di creatura soprannaturale e donna fatale. 

Cresciuta in un convento delle Indie Occidentali, Harriet non sa nulla della “vita di società”. È una giovane donna spigliata, istintiva, affamata di vita e di esperienze. Non rispetta le etichette, i vincoli sociali, si getta tra le braccia di chiunque le dimostri un po' di affetto, è generosa e impulsiva. 

Manifesta apertamente, con l'innocenza di chi non ha mai avuto modo di confrontarsi con nessun altro se non con se stessa, i caratteri repressi – o pudicamente celati – di chi la circonda: l'interesse per il macabro, la passionalità, persino il razzismo. 

È una mina vagante, Harriet, un elemento anomalo e spaventoso nella perfetta, pura e algida società inglese che, per esempio, accetta la promiscuità a patto che a praticarla siano solo gli uomini e che lo facciano con discrezione, in modo da non suscitare scandalo e imbarazzi tra i loro congiunti. 

Per Harriet un'integrazione è impossibile. Sia perché non gliene viene data la possibilità, sia perché dalla parte di chi complotta per il suo isolamento intervengono le leggi della genetica e teorie pseudo-scientifiche basate su quell'antica legge che vuole che le colpe dei padri ricadano sui figli: 

“Indipendentemente dal fatto che sia attraente o meno, la ragazza ha ereditato orribili inclinazioni, per non parlare del sangue che le scorre nelle vene: in effetti, si tratta di una meticcia con un quarto di sangue negro, e non è degna di imparentarsi con nessuna famiglia inglese che si rispetti.” [Marryat, p. 205] 

Non è tanto il fatto di essere una vampira a disturbare il dottor Phillips e la casta signora Pullen. Se pure non fosse la figlia di una vampira, Harriet sarebbe comunque destinata e restare da sola. A essere esclusa dai circoli che contano, nonostante la ricca rendita. 
Harriet è diversa. Lo è per gli atteggiamenti, per temperamento, per retaggio. Per il sangue che le scorre nelle vene. 

“be', dovresti sentire cosa dice il vecchio Phillips di lei e dei suoi genitori. Erano gente davvero orribile, e lei ha sangue negro che le scorre nelle vene... sua madre era una mezzosangue, dunque capisci che sarebbe impossibile per qualunque uomo nella mia posizione anche solo pensare di sposarla. Che poi uno rischia di ritrovarsi per erede un figlio colorato. Ah! Ah! Ah!” [Marryat, p. 248] 

Le si attribuiscono, ingiustamente, le tare famigliari (sadismo, lussuria, perfidia) dalle quali, dice il dottor Phillips, non potrà mai sottrarsi. La sua è una condanna definitiva e senza appello. Harriet è destinata a diventare un mostro gonfio, avido e infernale. Questo dice il dottore, santificando il suo pregiudizio con il sigillo della scienza. 

Harriet è solo una ragazza affamata di vita e d'amore. Ma tutto questo viene percepito in un'ottica negativa, socialmente riprovevole. Può essere sfruttata, può essere derisa, forse anche compatita, ma alla fine andrà assolutamente allontanata. 

Sì, forse Harriet è davvero una vampira, anche se su questo punto la Marryat fa in modo che non vi sia mai un'assoluta certezza, e potrebbe benissimo trattarsi di pura suggestione, ma gli unici mostri presenti nel romanzo sono gli altri. Sono quei rispettabili inglesi dal sangue purissimo e accertato pedigree che dal primo istante non hanno smesso di calunniarla e denigrarla, spingendola con il pettegolezzo in un vortice di allucinata follia e disperata solitudine. 

“è così bello avere qualcuno che ti vuole bene... Mi sentivo così apatica in convento... così sola. Se mai prendevo in simpatia una ragazza, ci mettevano in stanze separate. È quello che ho tanto desiderato... andarmene per il mondo e trovare qualcuno di cui essere amica, che amasse me, solo me, e da avere tutto per me” [Marryat, p. 65] 

Albert Joseph Penot, Bat woman



La casa del vampiro di George Sylvester Viereck [1907] 

Dieci anni più tardi la tragica fine di Harriet Brandt, un secondo vampiro psichico fa la sua comparsa tra le pagine di un romanzo breve. 
A differenza di Harriet, vittima della società, il vampiro in questione se ne va tronfio per il mondo, godendosi senza rimorsi di coscienza i privilegi da sanguisuga della propria mente. 

Reginald Clarke è un uomo che ha tutto: fama, successo, denaro. È un fine esteta, che ama circondarsi di artisti dal talento geniale. Li mette a proprio agio, li ospita nella sua casa, una dimora barocca arredata con il gusto per il bric-à-brac; a volte, persino, li sposa. E lentamente – deliberatamente – li consuma. 

Sottrae loro immaginazione, impulso creativo, estro poetico. Li svuota, come fossero grasse e feconde chiocciole e, una volta esauriti, li getta via. Senza rimpianti, senza rimorsi. 

Ogni artista che entra in contatto con Clarke finisce per morire. Non fisicamente, ma intellettualmente. Privati della fantasia e della capacità di astrazione gli artisti sono nulla, non producono più nulla. La loro ragione di vita si spegne. Sono gusci pieni di niente. 


Ma Clarke può spingersi ancora oltre. Può persino arrivare a sottrarre alla sua vittima la ragione, trascinandola nella follia e nella demenza. 

Reginad Clarke è un autentico mostro, un vampiro persino più spaventoso di Dracula, che non prova nulla per nessuno se non per se stesso. È una creatura che vive solo per appagare i propri bisogni, il suo desiderio di fama, il proprio ego. 

Mai tradotto in italiano, La casa del vampiro di George Sylvester Viereck è una di quelle opere dell'orrore soprannaturale che meriterebbero di essere riscoperte e che, almeno per il momento, si possono trovare solo sul sempre utilissimo project Gutenberg

E quegli occhi continuavano a fissarlo. Ma quello non era più Reginald! Era un cervello... solo cervello... un terrificante cervello-macchina... infinitamente complesso... infinitamente forte […] Qualcosa lo stava risucchiando... risucchiava i nervi dal suo corpo risucchiava, risucchiava, risucchiava... Era una suzione irresistibile... spietata... impassibile... immensa. [mia traduzione da The House of the Vampire, George Sylvester Viereck, 1907] 

And still those eyes were fixed upon him. But this was no longer Reginald! It was all brain... only brain... a tremendous brain-machine... infinitely complex... infinitely strong. […] Something dragged him... dragged the nerves from his body dragged, dragged, dragged... It was ann irresistible suction... pitiless... passionless... immense. 

2 commenti

  1. Di vampiri psichici si può dire che tutti noi ne abbiamo conosciuto almeno uno: è quel conoscente che cerca di portarti via tutte le amicizie e le fidanzate, quel collega di lavoro che sfrutta la tua opera per prendersene i meriti e quel parente che si auto-invita a tutte le feste senza portare mai niente e potrei andare avanti a lungo....

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    1. XD Sì, diciamo che di vampiri alla Reginald Clarke ce n'è in abbondanza

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