Il lato pulp del giornalismo - recensione a IL SUDARIO NON HA TASCHE di Horace McCOY

oh, certo, è tutto zucchero e miele in questo grande, fantastico, meraviglioso paradiso chiamato Stati Uniti d'America, il solo paese dove la radio è libera e non soggetta a censura, e la stampa uguale e la parola idem come sopra – oh, certo, un uomo può dire quello che gli piace quando gli piace – e cristo se può: tu provaci e vedrai che il tuo giornale ti sparisce tra le mani [Horace McCoy, Il sudario non ha tasche, trad. di M. Bocchiola e R. Santachiara, Bompiani, 1994, p. 113]
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C'è un racconto di Ray Bradbury, contenuto nella raccolta Il pigiama del gatto, in cui l'autore e sua moglie fanno la conoscenza di un “completista”.
Ecco, io ho da poco scoperto di essere una completista.

Tutto è cominciato il giorno in cui mi sono imbattuta in Horace McCoy.
Ancora prima di finire Non si uccidono così anche i cavalli? sapevo che avrei dovuto mettere le mani su ogni cosa McCoy avesse scritto. Delusa dal fatto che fossero così poche le sue opere in circolazione. Convinta che chiunque si dichiari appassionato di hard-boiled e noir dovrebbe fare altrettanto.
Ma poi, perché limitarsi? Anche chi non è un fan del genere farebbe bene a dare una scorsa a romanzi come Un bacio e addio, Avrei dovuto restare a casa, il già citato They shoot horses, don't they? e Un sudario non ha tasche. Fagocitare McCoy è l'esperienza migliore che vi possa capitare, per una serie di motivi, che alla fine possiamo anche sintetizzare in tre punti fondamentali:

  • il senso del ritmo e della prospettiva. McCoy scrive come se stesse dirigendo un film,
  • i dialoghi: sempre puliti, asciutti, precisi come un bisturi,
  • la costruzione dei personaggi, la cui personalità e psicologia vengono tratteggiate anche da quelle che, nell'ottimo articolo scritto per thriller magazine, Mario Tirino definisce “ardite elaborazioni grafiche”. 


E in fondo stiamo pur sempre parlando di uno sceneggiatore, oltre che di un giornalista, di un attore teatrale e di un buttafuori. Così, leggere un romanzo scritto da McCoy è come ritrovarsi seduti sulla poltrona di un cinema. Le luci calano, la sala è piacevolmente silenziosa, e non hai neppure bisogno dei pop corn perché la trama ti tiene incollato allo schermo/pagina dai titoli di testa a quelli di coda.

Un bacio e addio è, dal mio punto di vista, la sua opera migliore. Un capolavoro di psicologia e thiller. Un noir cupo, privo di happy ending, che è un po' la sua cifra stilistica. Il mondo fa schifo e non c'è redenzione, possiamo provare a migliorare un po' di cose ma, alla fine, sono sempre i peggiori ad avere la meglio perché è la società stessa a essere costruita sul principio della diseguaglianza. Dietro la patina di “semplici” romanzi pulp si nasconde, ma neanche troppo, una rovente critica alla società americana del periodo, a quel sogno che non sarà mai di tutti, che non lo è mai stato.

No pockets in a shroud è forse l'esempio più lampante di quanto fosse forte, in McCoy, il bisogno di denuncia sociale.
Sfruttando in parte le sue vicende personali, l'autore ricalca su se stesso la figura di Mike Dolan, giovane e idealista reporter che decide di fondare un giornale indipendente per raccontare ciò che i quotidiani non vogliono pubblicare. Dolan è disgustato dalla reticenza, dall'ipocrisia e dalla corruttibilità del sistema di informazione. Soprattutto per quanto riguarda casi che coinvolgono l'upper class, sistematicamente passati in sordina o cassati dal direttore.

Per quello che mi interessa la gente può fare l'accidente che crede, anche in mezzo alla strada. Questo non c'entra: c'entra che il coraggio di dire che razza di bastardi amministrano questa città non ce l'avete. E quando ti ho portato la storia su quel porco del governatore, riferita e controfirmata da quell'altro alcolizzato del nostro deputato al congresso? Cos'è successo allora? Niente! E lo scandalo del baseball? Ti ho messo in mano una notizia bomba, ti ho dato le prove, e tu sei saltato fuori con un mucchio di fesserie sul fatto che non dovevo illudermi di riformare il mondo. [op. cit., p. 9]

Come già detto, nel tratteggiare Dolan, McCoy si ispira a se stesso e ai suoi trascorsi. Come McCoy, Dolan è stato insignito della Croce di Guerra durante il primo conflitto mondiale. Come McCoy, Dolan fonda il suo giornale e si ritroverà ben presto a dover affrontare una serie di minacce e tentativi di censura.

Dolan è un idealista con un forte senso di giustizia, ma non è un santo. Ed è questa la sua forza. McCoy riesce a creare non solo un personaggio dotato di una forte passione, ma fallibile e, per questo, autentico. Dolan è un pessimista genuino, un anarchico, un radicale, un disilluso della società che sente di dover combattere per rendere il mondo un posto meno peggiore di quello che è. Se necessario anche a costo della propria vita.

Il sudario non ha tasche è un romanzo di estrema modernità non soltanto per quello che racconta, ma per come lo racconta.

McCoy tocca senza mezzi termini temi quali gli aborti clandestini, la corruzione, il sesso, l'adulterio, il socialismo, il razzismo, i fascismi. E lo fa in un romanzo degli anni '30, con un linguaggio aperto, privo di sfumature, diretto come un pugno bene assestato sulla faccia dell'intera società americana.

Tutti i giorni scopro nuove ragioni per essere indignato. Per questo voglio fondare un giornale più grosso, a diffusione nazionale: per non lasciare le cose come stanno. Io sono convinto che Dorothy Sherwood abbia avuto perfettamente ragione a uccidere suo figlio di due anni, perché sapeva che non avrebbe avuto una possibilità su un milione di essere felice, e di fare una vita rispettabile, o semplicemente di avere abbastanza da mangiare. Ha fatto bene, perché non voleva che suo figlio la maledicesse per averlo messo al mondo... come facevo io con mia madre e mio padre. Come faccio ancora adesso. Che porco diritto avevano di farmi nascere? Non erano in grado di occuparsi di me, e hanno lasciato che imparassi a vivere nei vicoli più schifosi e in mezzo a tutti i generi di merda, che crepino ammazzati... [op. cit., p. 154]

L'America che McCoy racconta è un luogo senza speranza, meschino, profondamente ingiusto e per nulla equo. Il sogno americano è un'ipocrisia. Non stupisce, quindi, che l'opera sia stata pubblicata in Inghilterra nel '37 e solo dieci anni più tardi, e in una versione edulcorata, negli Stati Uniti.

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Ma Dolan ne ha per tutti e riconosce, nelle notizie che provengono dall'Europa, le stesse ipocrisie e vigliaccherie. E mentre palesa il suo disprezzo per la Società delle Nazioni, accomodante con Hitler e Mussolini, con estrema sensibilità si prefigura lo scoppio di un nuovo conflitto mondiale.
Il suo è un romanzo contro, una letteratura anarchica.
E, di nuovo, modernissimo quando, in un dialogo magistrale tra un italoamericano e l'assistente di Dolan, elabora in poche righe l'assurdità di definire straniero chi è nato e cresciuto in America, anche se i suoi genitori sono emigranti. Un'assurdità che culmina nel racconto della riunione di un gruppo di “puristi americani”, al quale appartengono tutti i nomi che contano della città che si rifà al Ku Klux Klan e il cui slogan è “L'America agli americani”.

Il sudario non ha tasche, come l'intera produzione di McCoy, è un romanzo da riscoprire e rivalutare. 
Strappandolo dall'etichetta di “semplice” scrittore di polizieschi, spero che prima o poi si arriverà ad attribuire a Horace McCoy quell'importanza, per stile, sensibilità artistica e contenuti, già tributata ad altri scrittori della lost generation. 

c'erano milioni e milioni di persone convinte che Hitler e Mussolini fossero grand'uomini, senza sapere (o preoccuparsi) che invece erano dei pagliacci psicopatici, poveri bastardi malati che stavano portando un mare di bestie (quegli stessi milioni e milioni) al macello [op. cit., p. 113]

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