
Sono cresciuta nella convinzione che ogni nostra azione fosse anche un atto politico. A cominciare dalla scrittura.
Gestire un blog spesso traccia un percorso, con i singoli post che vanno a comporre la linea di pensiero che sta dietro quell'autore o quell'autrice.
Se cercate tra le mie letture, tra le recensioni accumulate nel corso degli anni, ci sono dei temi che emergono con maggiore rilevanza di altri.
Uno di questi riguarda l'impegno politico del singolo contro regimi ritenuti ingiusti, crudeli, disumani. Non è un caso che da queste parti si parli spesso di distopie. Né lo è il fatto che abbia scelto gennaio per parlare di ucronie. E di ucronie naziste.
Ieri è stata la giornata della memoria. Ho scelto di celebrarla (anche se il termine è quantomeno improprio) postando una citazione tratta da Lui è tornato di Timur Vermes [Bompiani], consapevole che la memoria non deve limitarsi al guardarsi alle spalle, per evitare di fissare quello che accade nel presente.
Perché? Se sono stati uccisi per sbaglio, allora è tutto a posto? Noo, l'errore è stato permettere che qualcuno si facesse venire l'idea di uccidere gli ebrei! E gli zingari! E gli omosessuali! E tutti quelli che non gli andavano a genio. [Lui è tornato, Timur Vermes, trad. di F. Gabelli, Bombiani, p. 308, 2013]
In fondo, il “Meditate che questo è stato” che Primo Levi piazza al centro di Se questo è un uomo è un monito. Perché lui come altri sapeva che quanto era stato commesso in nome di un'intero popolo poteva ripetersi. Magari non con gli stessi metodi, magari non con le stesse dinamiche. Ma la possibilità c'era. Ed era contro questa possibilità che andava esercitata la memoria. Il ricordo.
Ma ora a me sembra che la memoria non sia più sufficiente.
I morti restano morti. Le fosse comuni si riempiono di terra. La cenere si disperde tra le correnti.
I morti non sono già più persone. Sono stime, numeri, grafici. Non hanno occhi, volti, nomi.
Possono impressionarci le foto. Ma riguardano un passato che non ci sfiora. Che sbiadisce tra il bianco e il nero degli scatti.
I morti di ieri e i morti di oggi si assomigliano perché non hanno peso. Hanno la consistenza leggera di un titolo di giornale. Di un tweet. Di un hashtag. Sono fantasmi di parole, dispersi in anni troppo lontani perché la memoria li raggiunga, o al largo di coste tanto vicine quanto irraggiungibili. I morti di oggi nutrono i pesci che domani porteremo a tavola. La nostra è un'epoca cannibalica. Disumanizziamo per divorare, metaforicamente, chi giudichiamo inferiore in virtù del nostro diritto di nascita. E lo facciamo con consapevolezza perché, a differenza di quanto potevano affermare i buoni cittadini tedeschi all'indomani del '45, noi sappiamo. Abbiamo tutti i mezzi, oggi, per sapere. Noi sappiamo. I nostri occhi sono ovunque. Dobbiamo solo decidere da che parte guardare.
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Ora ho qui un mucchio di libri sull'argomento, alcuni li troverete in Ucronia portami via. Di altri ne ho già parlato qui e là, sul blog e altrove.
Lui è tornato – Timur Vermes. Siamo ciò che votiamo. E questo Hitler è così credibile che vi sfido a chiudere il romanzo su quello slogan senza provare un brivido.
Il piccolo Führer – Fabbri e Antonucci. La satira è oggi lo strumento migliore che abbiamo per resistere alla progressiva tendenza disumanizzante di certa politica. Se vi scandalizza, ha toccato qualcosa che forse neppure sapevate di covare.
Ognuno muore solo – Hans Fallada. Nel romanzo di Fallada gli ebrei sono una massa silenziosa che svanisce nel nulla. Ma sono presenti e persistenti. Così come presente e persistente è il desiderio di ribadire un fermo no contro la prevaricazione, la violenza, l'ingiustizia fatta regime.
La guerra delle Salamandre – Karel Čapek. Se sono salamandre possiamo sfruttarle, rinchiuderle in lager, costringerle a lavorare per noi. Possiamo fare di tutto a queste creature semiumane, che sono così diverse dalla nostra specie. O no?
Tutti i racconti – Primo Levi. Ci sono racconti che non ne parlano apertamente, ma si trascinano dietro riflessioni amare sul passato e sul futuro. E poi c'è la storia di un gruppo di creature terrorizzate, martoriate, segregate all'ultimo piano di un palazzo mentre la gente normale, la gente per bene, preme dabbasso per entrare e farle a pezzi.
I ragazzi venuti dal Brasile – Ira Levin. Non uno, non dieci, ma 94 Hitler pronti a conquistare il mondo. Sono la copia perfetta dell'originale, l'incarnazione di una mente che non sarà mai destinata a morire, allevati con amore dall'uomo simbolo dell'orrore: Mengele.
È meglio essere chiari fin dall'inizio: io che vi parlo sono oggi un uomo, uno di voi. Non sono diverso da voi viventi che in un punto: ho memoria migliore della vostra. [Il fabbro di se stesso da Tutti i racconti, Primo Levi, Einaudi, 2005, p. 322]
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