Recensione. ABBIAMO SEMPRE VISSUTO NEL CASTELLO di Shirley JACKSON




Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m'avveleni.
Merricat, disse Connie, non è ora di dormire?
In eterno, al cimitero, sottoterra giù a marcire!
[Abbiamo sempre vissuto nel castello, di Shirley Jackson, traduzione di M. Pareschi, Adelphi, 2009, p. 27]

“Un manicomio!” esclama il cugino Charles quando irrompe goffamente nella vita tranquilla di Merricat, Constance e dello zio Julian.


E in effetti la lettura di Abbiamo sempre vissuto nel castello di Shirley Jackson (tit. or. We have always lived in the castle, edito in Italia da Adelphi per la traduzione di Monica Pareschi) un po' quella sensazione di manicomio te la lascia, con quegli scambi di battute sui generis che ti straniscono, con quella voce narrante che voleva nascere lupo mannaro ma si accontenta di essere una strega leggendaria, un fantasma che si muove tra le mura del “castello” in cui abita con la sorella e lo zio, in una reclusione quasi perfetta, e il paese nel quale è costretta a scendere due volte a settimana per i rifornimenti.



Abbiamo sempre vissuto nel castello, recensione

Lasciate ogni speranza o voi che entrate, verrebbe da dire al lettore che decidesse di avventurarsi nella lettura del romanzo. Uno degli ultimi della produzione della Jackson, e successivo a quel pezzo da maestra che è L'incubo di Hill House.

Qui le difficoltà, sempre implicite nella lettura e decifrazione dei messaggi sottintesi dalle opere della Jackson, sono decuplicate dal fatto che l'autrice sceglie di servirsi come narratore dell'inaffidabile Merricat Blackwood. Che Merricat sia un narratore inaffidabile lo capiamo sin dall'inizio, dall'incipit nel quale ci racconta che pensava di essere un lupo mannaro, e ne abbiamo la conferma quando la vediamo esplodere in desideri di vendetta delirante contro delle persone che si trovano in fila dietro di lei dal droghiere.

Da questo momento in poi sappiamo che tutto ciò che vedremo, lo vedremo attraverso gli occhi di una donna paranoica che vive la realtà attraverso un personalissimo e distorto punto di vista. E così, una volta chiuso il romanzo, resteremo con il dubbio che tutto quanto sappiamo sui Blackwood, le due sorelle e il paese sia in realtà una menzogna.

È questo straniamento, che in Hill House era mitigato dal fatto che a raccontare gli eventi della villa fosse un narratore esterno e non la stessa Nellie, che il lettore deve tenere in mente senza dimenticarsene mai fino a fine lettura.


A villa Blackwood vivono in una simbiosi fungina le due sorelle Constance e Merricat, che si prendono cura dell'unico parente che è loro rimasto: lo zio Julian. E tutto procede tranquillo, in una routine ovattata, finché nella villa non irrompe il cugino Charles. Che spezza l'equilibrio esponendo le sorelle a un tragico epilogo.

Abile cuoca, accusata di un delitto orribile, Constance soffre di una forma acuta di agorafobia, che l'ha bruscamente sottratta al mondo

Il rapporto di Constance con Merricat è quello di sudditanza, tanto materiale quanto psicologica. Costretta a fare affidamento sulla sorella minore per le incombenze quotidiane, non riuscendo ad andare oltre l'orto della villa senza provare un profondo senso di disagio, Constance è anch'essa la vittima delle fobie e delle paranoie di Merricat, nelle quali finisce ben presto per restare intrappolata.

Un legame, questo, che ricorda da vicino un altro rapporto sbilanciato e morboso, rappresentato in Che fine ha fatto Baby Jane?con Bette Davis e Johann Crawford.

In parallelo con il film di Aldrich, la reclusione volontaria di Constance è un meccanismo di protezione e un tentativo di venire a patti con il senso di colpa per quanto accaduto nel passato.

Come già in Hill House, anche in Abbiamo sempre vissuto nel castello la casa è il centro di tutto ed è sia luogo fisico che metafora della mente della protagonista.


Villa Blackwood è una immensa magione gotica, che sembra costruita sulle ossa di tutti coloro che l'hanno abitata dal giorno della sua fondazione e che, come Hill House, si erge sul paese sottostante, dalla curiosità del quale si sottrae nascondendosi all'interno di un recinto che Merricat rafforza attraverso particolari rituali magici.


Dalla villa Constance non esce che per entrare nell'orto, e non se ne allontana mai.
Nella villa Merricat si aggira come un fantasma, camminando in punta di piedi nelle stanze che erano dei suoi genitori e di suo fratello, di sua zia e di sua cugina, seguita da un gatto che di nome fa Jonas e che si muove nella sua ombra come un succube.
Nella villa lo zio Julian ricorda e trascrive con puntiglio maniacale e ossessivo l'ultimo giorno di vita dei suoi cari e il lungo processo che ne seguì. Processo nel quale Constance si ritrovò come imputata e infine assolta, senza peraltro che la sentenza la rendesse innocente agli occhi del resto del paese.

Così Abbiamo sempre vissuto nel castello si trasforma nella storia di un assedio.


Da una parte ciò che resta dei Blackwood. Dall'altra, una comunità inferocita dal – presunto - fallimento della giustizia. Una comunità che aspetta, paziente, il momento in cui verrà dato il permesso di allestire i pali e le fascine per il pubblico rogo, necessario a mondarla dal crimine rimasto impunito.

È questo un racconto sulla caccia alle streghe dove le Blackwood, allontanate dalla comunità come streghe in un villaggio del XVII secolo si fondono a poco a poco con la casa, murandosi tra le sue stanze come spettri.
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E qui potremmo chiudere la recensione. Anzi, vi invito a farlo. Ma, se volete continuare a leggere, sappiate che quella che segue è un'interpretazione personalissima del romanzo che non ha pretese di verità assoluta. 
Perciò, prendetela per quello che è: una supposizione.

Come sempre quando si tratta di Shirley Jackson, l'opera sembra godere di un secondo piano di lettura. 

In effetti, se Merricat è la voce narrante, la vera protagonista del romanzo è Constance.

È Constance, non Merricat al centro dell'odio popolare; è lei ad essere assediata dall'amore per sua sorella; è lei quella schiacciata dal dolore per quanto è accaduto, vittima del senso di colpa. Constance che non fa che ripetersi quanto tutto sia una sua responsabilità.

È un romanzo, questo, che proprio per il tipo di narratore scelto costringe il lettore a ripensare tutto quanto si è letto. A rileggerlo con gli occhi dello psicanalista.

Perché se, come già detto, villa Blackwood rappresenta la psiche umana, allora i tre personaggi che la abitano non sono in realtà nient'altro che tre parti di una sola psiche: colpa, psicosi e ricordo. In una sorta di precognizione in chiave horror di Inside Out.

E quando interviene Charles, che rappresenta forse la difficoltà economica, l'elemento razionale che in tutta la sua grettezza ricorda ai tre abitanti che ci sono delle necessità materiali che vanno prese in considerazione, ecco che tutto va in pezzi.

Non c'è più la possibilità per questa mente di reggere il peso del ricordo, che finisce per morire, e si rinchiude in se stessa, nel tentativo disperato di preservare quanto le è rimasto. Anche se si tratta di un'illusione.


È solo nel momento in cui arriviamo a supporre che Constance sia l'unica figura realmente viva, e le altre nient'altro che sue proiezioni, che questo romanzo acquista un senso del tutto nuovo.
È proprio lo zio Julian, del resto, questa memoria labile che se ne sta relegata in un angolo della "casa" a ricordarci, a un certo punto, che Merricat è morta. E se c'è mai stato un momento in cui il suo personaggio sembra lucidamente certo di ciò che sta dicendo, è proprio la scena in cui fa quell'affermazione.

In questo modo i dialoghi, anche quelli più surreali, cambiano di significato. La visita delle vicine, episodio durante il quale i personaggi sembrano muoversi su un doppio piano di realtà, viene messa a fuoco.

Ma per giungere a questa analisi occorre uno sforzo nel lettore. Sforzo che in Hill House era reso meno gravoso dal fatto che non fosse Nellie a raccontarci la sua storia. Per questo dicevo di approcciarvi al romanzo solo se preparati.

Che Constance sia colpevole o meno del crimine del quale la si accusa non è importante.
Perché la sua mente si è chiusa su di lei come una prigione, segregandola per sempre dal mondo che la circonda.
Escludendola dagli sguardi minacciosi degli estranei. Trasformandola, a poco a poco, in un fantasma.

"Ma loro mi vedono?", sussurrò lei a sua volta. "Qualcuno mi guarda?"
"Sono tutti presi dal fuoco. Sta' zitta."
[Abbiamo sempre vissuto nel castello, di Shirley Jackson, traduzione di M. Pareschi, Adelphi, 2009, p. 130]



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