I fatti, quando cercherò di ricostruirli, per raccontarli a voi, diventeranno confusi. La linea che separa il vero dal falso tremerà fino a scomparire. E arriverà un momento in cui, fatalmente, ci perderemo di vista. Non mi crederete, anche se ho le prove digitali di quello che è successo [...] - Violetta Bellocchio, La festa nera, Chiarelettere, 2018, p. 134
Metto le mani avanti. Con un certo stile di scrittura non ho mai
avuto buon feeling. Per intenderci, non mi trovo a mio agio in compagnia di Palahniuk non
soltanto perché mi parte un rictus ogni volta che devo scriverne il
nome, ma per il suo modo di raccontare una storia. Uno stile che ricorda un film
in found footage dove il macchinista non solo ha la mano
traballante, ma pure la predilezione per inquadrature storte, primi piani frammentari e lunghissime riprese di sfondi neri.
Not my cup of tea.
Perciò confesso di aver fatto un po'
di fatica a immergermi nella storia raccontata in La festa nera, come quando è il primo maggio e il bagno a mare lo fai, certo, ma con calma, ritornando più volte a riva e stando attenta alle correnti di risacca.
Una storia, questa, che affonda le mani e la faccia nel presente, nel
nostro presente, nella
nostra società, in quella reale e in quella fittizia fatta di
algoritmi e commenti e mi piace un tanto al chilo.
Quarto romanzo di Violetta Bellocchio e edito da Chiarelettere, La festa nera travolge il lettore nel convulso flusso di coscienza dell'io narrante.
Un narrare
così impetuoso da farti sentire il bisogno di sottrarti alla lettura
come dopo una lunga apnea; di aggrapparti ai bordi della pagina per
riprendere fiato, per non finire risucchiati via.
Il romanzo è ambientato in un'Italia post
apocalittica, a sua volta incistata in un mondo ormai bellamente
fottuto.
È il 2026 e il tempo viene registrato per noia, perché in fondo non ha più molto senso star lì a sapere che anno è, che giorno è. Il tempo di vivere è finito. Si può continuare a sopravvivere, per quel che importa – e non c'è davvero nessuno a cui importi.
I porti sono chiusi. Le strade dopo un po' incrociano un ponte crollato. E gli aerei hanno smesso di risucchiare stormi di uccelli nei motori. Non c'è più un futuro verso cui andare.
Il mondo si è perso. È andato alla deriva meglio di quanto abbia fatto la vecchia Pangea. E in questo mondo irrimediabilmente rovinato poche cose sopravvivono immutate come ai vecchi tempi: i social network e il voyeurismo.
Intendiamoci. Qui i social network
non sono le realtà che conosciamo noi anche se pare che internet
funzioni ancora.
In La
festa nera i social
network sono trasportati nella vita reale.
Sono sette che sorgono
come funghi in un cimitero e aggregano, attorno alla figura di un
leader carismatico o di un'idea o di un malessere condiviso, decine
di persone. Persone che si rinchiudono volontariamente in borghi
abbandonati e saccheggiati, in edifici cadenti dove i topi giocano
con i neonati, per
abbandonarsi alla loro
solitudine.
La solitudine gioca il ruolo da protagonista in questo romanzo.
È
l'elemento che collega tutti i personaggi, da quelli principali ai secondari. È un collante fatto di silenzi, di desideri inespressi, di
passati oscuri e messi sotto chiave. È una voce unica che rende
tutti muti, anche quando parlano senza quasi prendere fiato.
In questo territorio del silenzio e
dell'abbandono si mettono in viaggio i tre personaggi chiave: Ali, voce narrante della storia, a lei il compito di
raccontare i fatti così come sono accaduti; Nicola, il cameraman,
l'occhio sintetico e inespressivo di ciò che accade; Misha, la star,
ex dea di YouTube, poi martire del cyberbullismo,
che indossa lenti in grado di riprendere la realtà da un punto di
vista intimo e soggettivo.
È lei l'occhio che esplora i contorni e i
confini degradati della Statale 45 lungo la quale sorgono dozzine di
comunità settarie, e che in tre percorrono per raggiungere La
Mano,
una delle sette più misteriose nate nel Paese, alla guida della
quale opera un Padre/Madre
che, si dice, sia
in
grado di operare veri miracoli.
È
un viaggio d'esplorazione, alla
scoperta di
uomini colpevoli di atti di violenza contro le donne i
quali
si rinchiudono volontariamente in un borgo dimenticato per sfuggire
alla “contaminazione” della femmina, alle sue lusinghe criminali; è
un lungo sostare
a
Seconda Zion, dove il futuro è negato e si vive dei ricordi e delle
opere del passato, in una assurda, schizofrenica dicotomia temporale.
È un lungo pellegrinaggio verso
la comunità della Luna Nuova, dove creature un tempo umane praticano
il culto del dolore e della sofferenza; è
una festa in piscina
alla
scuola Frank, nella quale bambini nati nel mondo sbagliato vengono
educati alla cultura della caserma e della guerra, futuri soldati di
un dio misterioso che li alleva nell'ombra.
La festa nera è soprattutto un viaggio nel nostro presente, nel nostro mondo digitale, dove ciò che accade in poche stringhe di testo può determinare la vita e la morte di una persona.
Così
come avviene a Misha, che finisce per essere trasformata
nell'ennesimo feticcio da bruciare su una piazza virtuale quando
qualcuno dà
fuoco alla prima fascina. Misha, vittima di una lapidazione virtuale per un video considerato
artefatto. Lancio
di pietre e stalking maniacale
che finisce per raggiungere e colpire
tutti i suoi collaboratori. Disperdendoli. Costringendoli a nascondersi, a estraniarsi persino da se stessi.
Dal tramonto all'alba, Misha non è più Misha, mezza ingenua e mezza furba, la ragazza bianca che tutti sopportano quando non riescono ad amarla, quella che, in mancanza di definizioni migliori, si ammette abbia coraggio; adesso è solo una ragazza bianca uguale a un milione di ragazze bianche, una stronza della circonvallazione interna che non può sperare di capire le vite diverse dalla sua, una zoccola ricca molto più cretina di quelli che finge di raccontare [...] - Violetta Bellocchio, La festa nera, Chiarelettere, 2018, p. 69
Misha che scompare di scena, ma continua a essere bersaglio di un
odio senza senso, feroce perché possibile. E che alla fine viene
convinta a tornare sullo schermo perché la fine ormai è reale e non
c'è nulla che conti più di una buona storia. Come quando non
eravamo che ominidi e trascorrevamo le notti in palafitte sferzate
dalle acque, a raccontarci di dei e leggende.
Ora la storia la fanno le immagini, e quella di Misha è la storia di
un mondo sifilitico, dove si tenta di sopravvivere instaurando legami
fragili e inconsistenti. Comunioni basate sulla mutua solitudine.
Sull'incapacità di ascoltare. Sull'incapacità di vedere.
Il mondo di Misha è un mondo cieco, sordo. Inaridito. Dove non c'è speranza. Dove l'amore è questione ormonale. E allora vale la pena scomparire. Cessare di esistere, davvero. In maniera definitiva e senza ritorno.
Eppure,
proprio quando stanno per scorrere i titoli di coda, la Bellocchio
sterza bruscamente e parcheggia sul bordo dell'ultimo belvedere rimasto. Il mondo è
uno sfacelo, non c'è redenzione, ma qualcosa ancora sopravvive. Può
sopravvivere.
A patto che si smetta di guardare e si riesca finalmente a vedere. Dentro di sé e negli altri.
Tutto sommato, forse c'è ancora una bava di speranza da risucchiare
in mezzo a tutto il fango.
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