Hulda notò che, come tutti gli scheletri, sembrava felice. Dentro ciascuno di noi, rifletté, ci sono ossa che sorridono. Da quel momento in poi avrebbe fatto del suo meglio per ricordare che, anche nei giorni più bui, sotto la sua pelle c'era sempre un sorriso. [Il bizzarro museo degli orrori, Dan Rhodes, trad. di Daria Restani, Newton Compton editori, 2010, p. 94]
Recensione. IL BIZZARRO MUSEO DEGLI ORRORI - Dan RHODES
31 ottobre 2018
Date un'occhiata alla copertina di questo romanzo.
Bello tutto quel viola e quelle ragnatele, no? Dà proprio l'idea di avere tra le mani una deliziosa e divertente fiaba horror come ne racconterebbe un Gorey o un Addams.
E quel titolo, poi: Il bizzarro museo degli orrori. Ah, signori, qui stiamo proprio per leggere qualcosa che ci farà ridere e inorridire.
Non lo dicono anche tutte quelle frasi di lancio disseminate negli interni di copertina?
No.
Perché, chiariamoci subito, questo Bizzarro museo degli orrori [tit. or. Little hands clapping] non è bizzarro, né grottesco e quel poco di orrore che c'è è presente in dosi omeopatiche.
Divertente?
Sarà che con la traduzione lo humor inglese perde inevitabilmente qualcosa, ma no, non possiamo proprio definirla una lettura divertente.
Macabro?
Dunque, c'è un episodio di necrofilia e più scene di cannibalismo, ma sono scritte in una maniera tale da non suscitare nel lettore niente più che un sentimento di pena.
Peccato, perché c'era del potenziale per farne una bella commedia nera.
Cosa che, però, Il bizzarro museo degli orrori non è.
Eppure se ne parlo, dopo aver fatto voto di tacere sui libri meno interessanti letti durante l'anno, è perché credo che sia quel genere di storia che possa piacere a chi ha come film del cuore Il meraviglioso mondo di Amelie o Edward Mani di Forbice, e che in libreria tiene Stephen King accanto all'Allende.
Perché, ed entriamo un po' nel vivo della recensione, Il bizzarro museo degli orrori è prima di tutto un romanzo che parla di amore.
No. Non sono impazzita.
Dirò di più: il tema centrale di questo racconto è l'amore come fonte di vita; ciò che dà senso a un'esistenza.
La sua assenza, dice Rhodes, porta a vite disfunzionali. E ce lo dice attraverso i due personaggi principali dell'opera: il dottore e il vecchio custode del museo.
Il vecchio, addirittura, non sembra affatto vivo. È un individuo grigiastro, vagamente robotico, che si aggira per il mondo come potrebbe farlo un computer o una pianta: vive per respirare e nutrirsi; non ha bisogno di nient'altro e guarda la realtà che lo circonda come se al posto degli occhi avesse una telecamera di sorveglianza.
Questa conclusione dà senso alle piccole mani del titolo originale, che applaudono una scelta presa a discapito di un'altra.
Ora, il museo in questione, situato in un paesino della Germania, è un istituto dedicato al suicidio. Gestito da una fondazione privata, la struttura ha come nobile obiettivo quello di dissuadere i visitatori dal compiere un gesto irreparabile.
Ogni sala è così intitolata a una diversa tematica inerente il suicidio, e si va dai Metodi più utilizzati ai Personaggi famosi che l'hanno fatta finita, per concludere il tour davanti allo scheletro di un giovane uccisosi per amore.
Questa è una delle poche cose che salvo dall'opera in questione, della quale non condivido l'approccio semplicistico a un tema complesso e quanto mai attuale come quello della depressione e del suicidio, anche se mi rendo perfettamente conto che, trattandosi di una storia più leggera di quello che la copertina e le roboanti dichiarazioni al suo interno vorrebbero far credere, questo sia anche l'unico approccio possibile.
Ed è qui che entra in gioco il dottore, i cui gusti particolari in fatto di cucina risulteranno particolarmente utili al vecchio custode, permettendogli di sbarazzarsi dei corpi dei suicidi senza dover intaccare la propria routine vegetale.
Purtroppo il romanzo parte sbilanciato dal tema principale e non riesce a essere né commedia nera né storia dell'orrore tout court.
Alcune belle scene, come il capitolo dedicato a Elodie, e personaggi ben costruiti non sopperiscono a un romanzo leggero, che scivola addosso al lettore senza lasciargli niente di più di una manciata di nomi da cercare su Wikipedia.
Per dirla sinteticamente, il romanzo di Rhodes è l'alter ego cartaceo del tizio che consiglia al depresso di tirarsi su perché la vita è bella e c'è gente che, a ben vedere, sta peggio di lui.
Ma non è che sta sempre lì a piangersi addosso.
4 commenti
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Bella recensione, grazie, forse meglio del libro. Ricordo di averlo archiviato molto in fretta, senza arrivare nemmeno a notare quei particolari che hai appuntato. Probabile che il problema più grosso non sia nel testo quanto nella confezione che è stata data al libro, e che cerca di venderlo per ciò che non è.
RispondiEliminaIn effetti quella cover è un bello specchietto per allodole. Io l'ho finito in fretta, in fondo è un romanzo che non richiede molto impegno, ma come te non ne ho ricavato granché se non una certa irritazione per il modo in cui Rhodes mette insieme argomenti pure interessanti, forzandoli perché si incastrino con il messaggio che vuole dare. Una favoletta e nulla più.
EliminaNon avrei mai detto che parlasse d'amore XD
RispondiEliminaMi sono trovata nella tua stessa situazione con "Il cimitero senza lapidi e altre storie nere", in cui le storie nere sono ben poche, due al massimo. Mah.
Eh, immaginati che faccia ho fatto quando ho cominciato a leggere il capitolo dedicato alla friendzone in un romanzo che viene venduto come un horror divertente e morboso XD
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