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zucca e teschietto per un halloween perfetto - fonte pixabay |
Quest'anno, sulla chat della scuola che frequenta mio figlio, si è scatenata una piccola guerra santa quando una madre poco avveduta ha proposto di fare una festicciola a tema Halloween.
Una proposta che a me ha fatto venire in mente questa scena qui:
Ma che ad altre deve essere suonata più o meno così:
La faccenda mi ha dato però lo spunto per scrivere il post in questione, segno evidente che nell'ultimo periodo il diavolo deve essersi messo a commerciare anche coperchi.
Una delle obiezioni che leggo più spesso sul tema Halloween, che si fregia del titolo di americanata per eccellenza, è che da noi non si usa festeggiare i morti in questo modo. Intendendo per “questo modo” le maschere da mostro, le zucche intagliate e la ricerca dei dolci casa per casa.
Ma non è proprio come ce la raccontiamo.
Non più di venti anni fa, io e altri amici ci aggiravamo per i vicoli della nostra città – un borgo antico dove le luci dei lampioni di quel primo novembre assomigliavano agli occhi albeggianti dei gatti – travestiti da spettri consunti, alla ricerca di dolci e monete.
L'idea per la piccola mascherata ci era stata offerta dalle nostre nonne, ripescata pigramente da quel lago profondo che è la memoria.
Quello fu il mio primo e unico Halloween, dato che la tradizione ormai si era persa e pochi di quelli che l'avevano praticata da bambini ci accordarono la grazia di una caramella.
Fatto sta che Halloween da noi si festeggiava. In un modo bizzarramente simile a quello praticato oltre oceano. Solo il nome cambiava.
Da noi Halloween si chiamava I Poveremuérte.
Il luogo è Terracina, comune laziale che affaccia sul Tirreno, davanti alle isole pontine.
La città vecchia se ne sta arroccata più in alto, guardata a vista da leoni di marmo mangiati dalla pioggia, tra viottoli lastricati di sanpietrini, sotto la luce cieca dei lampioni inchiodati alle mura antiche.
E lì, tra quei vicoli, nelle strade silenziose sferzate dal vento serale, andavano in processione i ragazzini vestiti da fantasmi.
Era la processione dei poveri morti.
L'origine della sfilata, che si compiva nella notte tra il 1° e il 2 Novembre, era antica.
Come riporta Genesio Cittarelli nel suo Fra vetuste mura, all'inizio si trattava di un vero e proprio atto religioso celebrato dai fratellone dell'armesànte. Chi contribuiva alla questua lo faceva per alleviare le pene delle Anime sante del Purgatorio, e il ricavato veniva successivamente distribuito alle famiglie più povere della città.
In seguito, quando il carattere religioso della processione si era ormai perso, furono i ragazzi a ereditare il lascito dei vecchi frati.
Riunitisi per rione, gli amici preparavano la sfilata.
Si sceglieva una zucca abbastanza grande da poter essere svuotata e intagliata in modo da ricavare un paio d'occhi, un naso e una bocca sghignazzante (vi ricorda niente?).
Nella zucca, chiamata coccia de muérte, veniva inserita una candela accesa. La lanterna improvvisata era quindi affidata alle mani del capobanda, che si metteva alla testa del corteo. Lo seguivano il portatore del campanello e quello che portava il sacco nel quale sarebbero state riposte le offerte. Via via veniva il resto della comitiva che, al suono del campanaccio, per i vicoli e il corso gridava: Povere muérte! Chi è vive e chi è muérte!, invitando tutti i presenti in casa a tenersi pronti con le offerte.
Si sceglieva una zucca abbastanza grande da poter essere svuotata e intagliata in modo da ricavare un paio d'occhi, un naso e una bocca sghignazzante (vi ricorda niente?).
Nella zucca, chiamata coccia de muérte, veniva inserita una candela accesa. La lanterna improvvisata era quindi affidata alle mani del capobanda, che si metteva alla testa del corteo. Lo seguivano il portatore del campanello e quello che portava il sacco nel quale sarebbero state riposte le offerte. Via via veniva il resto della comitiva che, al suono del campanaccio, per i vicoli e il corso gridava: Povere muérte! Chi è vive e chi è muérte!, invitando tutti i presenti in casa a tenersi pronti con le offerte.
Erano gli anni Trenta, e i miei nonni se ne andavano in giro con i compagni, indossando maschere realizzate con pezzi di cartone o vecchie scatole di scarpe, trasformati per un paio d'ore in spiriti in cerca di pace e cioccolata.
Fermi davanti a un portone, bussavano e recitavano la frase di rito:
Fermi davanti a un portone, bussavano e recitavano la frase di rito:
[da Fra vetuste mura, di G. Cittarelli, p. 136]Surgiaranne le criaturedall'antica zepulturae denanze al Tribbonaloce ste scritte bbuéno e malo
Un po' più complesso di “Dolcetto o scherzetto”, ma il risultato era lo stesso.
Raramente i portoni restavano chiusi.
La maggior parte si affrettava a dare ai poveri morti qualcosa (arance, castagne, qualche moneta, salsicce stagionate e cioccolato) per non incorrere nelle loro ire e ritrovarsi, il giorno dopo, il portone imbrattato di uova marce.
Finalmente, terminato il giro, i partecipanti al corteo tornavano alla base per spartirsi (spesso litigando) il bottino.
E solo allora, quando nei vicoli non barcollavano che le ombre dei gatti, i veri morti, gli spiriti autentici, si srotolavano lungo le strade, la via illuminata dai lumini che fiammeggiavano davanti alle persiane serrate.
Per una notte anche loro liberi di sfilare per quel mondo che si erano lasciati per sempre alle spalle.
° ° °
Fonti
Fra vetuste mura, G. Cittarelli, CI.BI Terracina, 1989
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