Prima di parlarvi a modo mio di L'ombra della paura (in inglese Under the shadow) opera prima di Babak Anvari, presentata nel 2016 al Sundance film festival, vi piazzo un enorme spoiler alert così da darvi il tempo, qualora siate spoilerofobi, di prendere i cappotti e imboccare l'uscita di emergenza.
Fatto?
Bene.
Secondo alert: questa non è una recensione, bensì una riflessione personalissima su uno dei film belli visti grazie a Netflix. Un film horror con messaggio politico, come nella migliore tradizione romeriana, che gli horror, prima di essere solo slasher e riflessioni di anziani killer sul senso della vita, erano anche film che denunciavano e mettevano in mostro (oh! oh! oh!) gli orrori della società.
Siamo a Teheran, sono gli anni '80; la rivoluzione che ha rovesciato lo scià Rezha Pahlavi e instaurato la Repubblica islamica si è conclusa da alcuni anni, la guerra contro l'Iraq è al suo apice.
Shideh, moglie di un medico, vorrebbe riprendere gli studi in medicina interrotti a causa della rivoluzione e della nascita di sua figlia, ma le sue speranze vengono brutalmente distrutte quando le viene rinfacciato il suo impegno politico a sinistra e, per tale motivo, le viene negato ogni ulteriore accesso all'università. Delusa e mortificata, Shideh torna a casa, che sembra essere l'unico luogo che ancora le appartenga. L'unico posto in cui può ancora (fingere di) essere una donna libera e indipendente. Ed estremamente infelice.
Quando poi il marito viene chiamato al fronte, e mano a mano i coinquilini abbandonano lo stabile per paura dei bombardamenti, Shideh si troverà da sola, costretta a confrontarsi con i fantasmi che si agitano dentro e fuori di lei e che, giorno dopo giorno, minacciano di soffocarla e di volerla annientare.
Tra i tanti sottotesti presenti in L'ombra della paura (ma il titolo tradotto in inglese rende meglio il tema del film), quello del rapporto tra la protagonista e la figlia è quello che, fin da subito, mi è apparso cruciale; così come
lo è il rapporto tra Shideh e la madre defunta.
Shideh si trova nel mezzo.
Dietro di lei sua madre, una donna forte e indipendente e ambiziosa, una donna libera in una società che riconosceva la parità tra i sessi. Davanti Shideh sta sua figlia Dorsa, proiettata in un mondo che vede nella donna una
creatura riprovevole alla quale concedere poche, microscopiche libertà, come una
catena al collo di un cane.
Un mondo che nega la parità e vede soltanto le
differenze, e quelle differenze punisce con l'esclusione e la
reclusione in un gineceo distaccato dalla società.
In mezzo lei,
donna politicamente impegnata che viene esclusa dal suo sogno (il
sogno di sua madre), e alla quale viene negata la possibilità di realizzarsi
come essere umano.
Parte da lì il racconto, dal dialogo con il
preside della facoltà. Da lì si snoda la storia di una donna che non
sopporta più il suo essere donna, e che vive in conflitto sia con il marito,
medico realizzato, che con la figlia, non perché la maternità le
abbia sottratto qualcosa ma perché in lei vede una riproduzione di
se stessa e ne invidia la libertà che, in quanto bambina, le viene ancora concessa.
L'instabilità di Shideh, il suo vivere inquieto, viene mostrato dal
regista con pochi piccoli dettagli: i bicchieri che vengono tolti e rimessi in ordine nella credenza; i libri gettati con rabbia ma anche con una
sorta di sollievo; il lavorio ossessivo e rabbioso sul corpo, al ritmo delle
lezioni di aerobica di Jane Fonda.
Quando il marito viene chiamato al fronte, l'equilibrio di Shideh si
spezza. I Djinn arrivano a tormentarla.
Rimasta sola con Dorsa è costretta a raffrontarsi
con la sua femminilità. Così, per esempio, partecipa con distacco al gioco del tè fino ad esplodere quando la bambina tenta di riportarla in camera, perché
quei giochi le ricordano che è una donna, un essere che nella società appena sorta non ha alcun posto se non quello che va dal tinello alla camera da letto.
In
una sorta di perverso amore materno, Shideh più volte aggredisce sua figlia perché si mostri
forte, più forte dei maschi, più forte di tutti. La umilia
verbalmente perché nella debolezza della bambina riconosce la sua. In questa chiave va interpretato il primo incubo che assale Shideh; e la
bambola che sua figlia porta ovunque, elemento focale del racconto, diventa una prova di quanto sia
debole, di un destino dal quale sembra impossibile per lei o la
piccola fuggire.
Non è un caso che il djinn che perseguita entrambe sia una donna. Una donna
onesta e morigerata. Il djinn
che Shideh vede, in realtà, non è neanche una donna ma un velo,
quel velo che funge da marchio, che segnala la sua diversità, che la nascone e la mette in mostra.
Il picco di tensione più alto si raggiunge proprio quando Shideh fugge dal condominio ormai deserto terrorizzata dal demone che ha visto in corridoio. Ma non può giustificarsi con i poliziotti che l'arrestano per oltraggio al pudore perché senza velo, non può raccontare del suo terrore perché scambierebbero il suo racconto per la confessione di un'adultera. La battuta che il poliziotto che l'arresta le rivolge: “Crede di trovarsi in occidente?”, è tanto indirizzata a Shideh quanto al pubblico in sala. Il regista sta dicendo agli
spettatori: questo non è un film occidentale. Qui nessuna donna
succinta in fuga da un maniaco verrebbe salvata, bensì punita
per essersi mostrata in pubblico con un abbigliamento indecoroso.
Così quando, poco
dopo essere stata rilasciata, Shideh si trova chiusa fuori casa e di
nuovo senza velo, nello spettatore si trasmette la sua stessa
angoscia, la sensazione di trovarsi in una doppia trappola: dentro
casa sua figlia è sola con il djinn, e non solo lei non può
entrare, ma non può nemmeno uscire in strada per chiedere aiuto. Shideh è definitivamente intrappolata in una
situazione dalla quale non c'è via d'uscita.
Solo la casa è il luogo sicuro. Solo lì Shideh può essere libera. Ed è per questo che si ostina tanto caparbiamente a non lasciarla. E tuttavia, crepe profonde si aprono sulle pareti, e più tenta di saldarle più queste si allargano, riversando dentro casa quel vento sottile che porta con se i djinn. Che è come dire la paura, il terrore di ciò che l'aspetta fuori e contro il quale non ha difese. Non più.
Che il Djinn che perseguita Shideh e sua figlia sia vero o solo la
proiezione di una mente depressa, L'ombra della paura fa centro con
una storia dell'orrore che sfrutta il soprannaturale per parlare di
altro, di una condizione di ingiustizia, di prigionia e di oppressione nella quale ci
si viene a trovare solo perché si è nati “diversi”.
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Bellissima analisi, Federica.
RispondiEliminaPurtroppo ho visto il film sotto Natale e, sarà stato il periodo, sarà il fatto di averlo visto sottotitolato e con una lingua non proprio piacevolissima in sottofondo, l'ho trovato molto interessante, ma un po' fiacco dal punto di vista cinematografico. Però tutti lo acclamano, eh. :) Di certo non mi aspettavo l'horror occidentale e ho apprezzato le infinite chiavi di lettura, però se un The Babadook ha sia il ritmo che la metafora da cogliere, in questo qui mi è mancato quel quid.