FIGLI RANDAGI - JOYCE CAROL OATES

"Dove stai andando, dove sei stata?"

Premessa.
Nelle ultime settimane il nome di Joyce Carol Oates si ripeteva con una certa frequenza sulla mia timeline di Facebook. Quando poi, qualche settimana fa, la Oates è risultata tra i vincitori del Bram Stoker Award 2016, mi sono detta che forse era arrivato il momento di ampliare le mie conoscenze letterarie.

Così sono andata in biblioteca, alla ricerca di un titolo che mi potesse dire, in poche pagine, il più possibile sull'autrice.

Avrei potuto prendere Acqua nera, che era disponibile e che risulta anche essere l'opera della Oates più suggerita nei gruppi di lettura che seguo.

Avrei potuto farlo ma, se si tratta di dover scegliere, sono quel tipo di lettore per il quale il racconto la spunterà sempre sul romanzo.

Inoltre, proprio perché volevo farmi un'idea generale dell'autrice, avevo il sospetto che Acqua nera mi avrebbe dato una visione limitata della sua narrativa.

Così mi sono decisa a portare a casa questa minuscola antologia di Joyce Carol Oates, edita da e/o, dal titolo Figli randagi.

Fine della premessa.

Cosa abbiamo in Figli randagi?

Sei racconti che parlano di adolescenza, di rapporti tra giovani e adulti, di scontri tra generazioni, di incomprensioni, di matrimoni esangui e sciupati, di bambini stuprati da un amore che diventa bisogno, possesso e odio al tempo stesso.
Micro-universi umani che la Oates fa schiudere sulle pagine con una prosa limpida e destabilizzante






Perché la prima cosa che ti colpisce della Carol Oates, oltre a una cura per le inquadrature e i dettagli nella costruzione delle sue storie, è che scrive senza svelarsi: la sua presenza è impercettibile.

Davanti alle sue opere il lettore è solo.

A chi legge è lasciato il compito (mi verrebbe quasi da dire: la responsabilità), di entrare nella storia, se vuole, e di assistere, come un fantasma, a quanto avviene porta dopo porta.
Accettando il fatto che, proprio come un fantasma, si ritroverà impotente di fronte a quanto accade.

Questa impotenza, che è poi la stessa impotenza di ciascuno di noi davanti a casi di cronaca terrificanti, è forse più facile da percepire in Sabato di follia.
Sabato di follia è il racconto di un matrimonio fallito; di creature che si amano e odiano; di bambini lasciati a se stessi, vittime di un amore dal quale non possono districarsi perché gli si è sviluppato addosso soffocante come un'edera.
Al racconto tranquillo e anestetico di come il piccolo Peter, tre anni, venga tenuto buono da sua madre l'impotenza ti si para davanti come un muro. E la rabbia e il dolore che la condizione di quel bambino immaginario suscita è tanto più forte perché sai che ciò che la Oates ha scritto in quel racconto è qualcosa che tuttavia è accaduto, che ancora accade, che accadrà, in qualche parte del mondo, lontana o vicina a noi non fa differenza.
Perché non potremmo impedirlo.

Il male nei racconti della Oates è un male banale; è un male che è parte integrante della natura umana; è un male contro il quale si possono battere i pugni o inveire, senza che questo cambi qualcosa.
È un male persistente e, sembra dire la Oates, indistruttibile perché la sua assenza implicherebbe l'assenza dell'essere umano in quanto tale, come negli umani replicati dagli alieni di "L'invasione degli ultracorpi".

Un male che Dove stai andando, dove sei stata?, il racconto di apertura della raccolta, mostra in tutta la sua semplicità e naturalezza. Anche nella sua stupidità, perché non c'è dubbio che Arnold Friend sia un uomo con un'intelligenza molto semplice, un'intelligenza ferina, animale, che lo porta ad appostarsi come un leone dietro un cespuglio, nei pressi di un pub, notte dopo notte.
Lo porta a studiare la sua preda, a prendere informazioni. E non attacca all'improvviso, Friend, ma con pazienza aspetta il momento sicuro per colpire.
Stupisce, quasi, l'assenza di un'aggressione violenta nel racconto. Arnold Friend non assale fisicamente Connie.
Eppure il male che da lui si propaga a lei, e che è fatto esclusivamente di parole, è qualcosa di concreto e quasi fisico.
Basta la sua presenza, una presenza che ha i tratti ambigui di una creatura non umana, e un dialogo che si fa via via più allucinante per far sbattere Connie contro un muro. Per farla inciampare. Per sconvolgerla e costringerla a seguirlo. Sola. 
Verso un nulla che c'è sempre stato, che se ne è stato in agguato anche lui, come Arnold, per tutto quel tempo e che solo adesso che le si sta avvicinando Connie riesce finalmente a vedere.

Un nulla che terrorizza perché non se ne vede la possibilità di uscita; dovunque si guardi, restare o abbandonarsi all'orizzontalità, come direbbe la Plath, quel nulla resta.
Contro il nulla ogni azione o gesto appaiono inutili, tanto che in Nella regione del ghiaccio, la donna che ha scelto di consacrare la propria esistenza a Dio, una decisione che nasconde, in fondo, un desiderio di tranquillità e di vuoto, all'improvviso si scopre privata della certezza nella quale si sentiva, fino a quel momento, protetta.
Si domanda se quella scelta, l'unica compiuta in un'intera vita, sia stata davvero giusta.
E come rimediare, se la vita è una sola.
Mentre il ragazzino che le ha aperto le vie del nulla, un ragazzino pieno di problemi, uno schizofrenico, sceglie il bianco splendore e un nulla diverso, lei resta viva, intrappolata nell'impossibilità di scegliere. Paralizzata dalla possibilità di cambiare.

“ A quel punto dovette riprendere fiato e Suor Irene ebbe la sensazione spaventosa di scorgere il vero Weinstein che la fissava con gli occhi sbarrati, prigioniero atterrito dietro una voce dal tono sicuro” [Figli randagi, Joyce Carol Oates, traduzione di Claudia Valeria Letizia, edizioni e/o, 1999, p. 135]

In “Nella regione del ghiaccio” la Oates traccia chiaro anche il rapporto tra questo figlio e i genitori. E tra marito e moglie. Si tratta di una forma di rapporto coniugale che, perfetto a una vista superficiale, non è in grado di celare del tutto le problematiche di uno sbilanciamento di coppia. Con un uomo che accentra su di sé i poteri familiari, un padre che non riesce a capire il figlio non perché schizofrenico, ma perché non è in grado (e chi di noi lo è?) di vedere il ragazzo come un uomo diverso da se stesso. Suo figlio biologicamente, ma non suo perché uomo con una mente, sogni e fragilità distinte dalle sue.
Quell'uomo, al pari di sua moglie, una donna debole e imbarazzata dalla sua stessa debolezza che le viene costantemente rinfacciata dal marito, è intrappolato nel suo mondo. 
Nel suo essere un uomo di successo per il quale le debolezze sono agenti esterni alieni e incomprensibili e minacciosi.

Questi due temi: i rapporti coniugali sfasciati e l'inconciliabilità tra i mondi dei padri con quelli dei figli, come pianeti che orbitano a breve distanza e che si attraggono e respingono brutalmente, sono presenti in altri due racconti.

In Desideri appagati il matrimonio è finito da un pezzo e la coppia perfetta è composta da due individui che vivono in una stessa casa, ma quasi non si riconoscono più. Qui la figura maschile è meschina e indifferente. Cinica per ciò che riguarda i bisogni e le emozioni altrui, si serve con la fame di un Erisittone dell'amore ossessivo della sua studentessa, se ne ciba finché non ne è sazio e la rimanda alla moglie quando quella devozione, che ne glorifica l'ego senza che lui dia nulla in cambio a eccezione della sua ingombrante presenza, minaccia la sua tranquillità e il suo lineare vivere quotidiano.

Un uomo che non ha nulla da dare, se non il suo denaro, è invece il padre di Figli randagi. Che è la storia di una relazione perversa, nella quale l'uomo non fa che accelerare l'autodistruzione della figlia.
Ecco che il rapporto padre-figlio nella Oates assume un'ambivalenza malsana, tanto più l'amore cerca di introdursi in una vita che è stata fino a quel momento sconosciuta, tanto più l'oggetto di amore subisce un decadimento, si imbruttisce isola e sfinisce.
Appassisce, come una rosa recisa dimenticata in un vaso.

Quell'amore che ha costretto il fiore al sacrificio, è quello che la Oates fa subire ai suoi personaggi. Che nel caso di Una ragazza sull'orlo dell'oceano resta sfumato appena ai margini del campo visivo del lettore, al quale è dato intuire ma non sapere la relazione tra Peter V. e Tessa e il male e il dolore che lei si porta dentro, un male e un dolore al quale parte di sé, la sua parte più fisica, vorrebbe addirittura tornare, per sentire una vita, per dare un senso a una vita che ora le sembra tanto inutile e indifferente.

“Continuava a ripetere io non voglio bene a nessuno! A nessuno! Una persona, un'amica, mi ha raccontato che mia madre si era lasciata con un uomo. […] lo aveva mandato a quel paese senza un motivo, perché non gli voleva bene, perché non aveva voglia di stargli dietro, perché non voleva bene né a lui, né a nessun altro, era una cosa troppo faticosa...” [Figli randagi, Joyce Carol Oates, traduzione di Claudia Valeria Letizia, edizioni e/o, 1999 p. 115]

In sei racconti Joyce Carol Oates evoca altrettanti mondi, storie che puntano il dito contro l'estrema vacuità di un'esistenza alla quale noi cerchiamo, incessantemente e quanto spesso senza successo, di dare un senso.

La traduzione di Claudia Valeria Letizia rende molto bene la prosa asciutta dell'originale; una prosa carica di un nitore raggelante dove non c'è una parola fuori posto, né un aggettivo superfluo.

Joyce Carol Oates traccia, pur nella brevità dei sei racconti, dei ritratti vividi dei suoi protagonisti. In ciascuna storia vi si trova la miniatura di uno dei personaggi, perfettamente dipinto e dettagliato. Quei dettagli sono, credo, l'elemento più affascinante del suo stile. Sono minuscole proiezioni che danno corpo e carattere agli uomini e alle donne che vivono e muoiono sulla carta.
Come gli orecchini di plastica rossa con dentro i cerchi di plastica nera che prima brillano alle orecchie di Sonya e, poi, al centro dell'orbita vuota di quello che crede essere suo figlio.

“Vede come tutto è aperto e vuoto. Vede quanto spazio vuoto lo circonda.” [Figli randagi, Joyce Carol Oates, traduzione di Claudia Valeria Letizia, edizioni e/o, 1999, p. 182]


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2 commenti

  1. Un'analisi che lascia a bocca aperta, perché rende perfettamente quanto la raccolta ti abbia conquistata, e così mi spingi a procurarmela al più presto.
    Amo moltissimo la narrativa breve, per gli stessi motivi che tu indichi, mi piace essere coinvolta dall'autore nelle storie e mi entusiasma la possibilità di una lettura partecipativa anche negli esiti, perché il "finale" spesso non è che un inizio ed è un peccato che molti non riescano a cogliere questa potenzialità.
    Il fatto che, se ho capito, la scrittura della Oates è essenziale e precisa, mi entusiasma ancora di più :D
    E le indagini sull'umano sono sempre preziose e ci arricchiscono, si tratta di materia che è anche "nostra" con variazioni certamente.
    Grazie per questo magnifico post *_*

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    1. Grazie Glò. J.C.O. è stata una vera rivelazione, che dovrò centellinare o rischio di non riuscire a leggere tutto quello che ancora mi aspetta sul comodino XD
      Ora aspetto di leggere le tue impressioni :)

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