Bibliofeticci. MALPERTUIS – Jean Ray

Un po' come la dimora che porta il suo nome, fino allo scorso anno Malpertuis, romanzo gotico e fantastico, è appartenuto alla genia dei libri introvabili; quelle edizioni che appaiono nel sottobosco di internet a cifre vertiginose, per poi altrettanto rapidamente svanire come ombre in una stanza buia. 


Pubblicato per l'ultima volta nella collana Horror degli Oscar Mondadori nel 1990, da allora Malpertuis ha fatto perdere le sue tracce, trascinando i collezionisti in un vortice di vorrei ma non posso, quando si presentavano copie a prezzi impossibili. L'unica possibilità di consolazione era data dalla visione del film omonimo, girato da Harry Kümel nel 1971, che vantava la partecipazione, tra gli altri, del massiccio Orson Welles nei panni di Cassave.


Quest'agonia è durata fino al dicembre 2016, quando Mondadori ha magnanimamente graziato le anime in pena dei collezionisti riproponendo il romanzo più famoso di Jean Ray (sempre nella traduzione della Basile), nella collana Horror di Urania. E per 6 euro e spicci anche i povery come la sottoscritta hanno potuto leggere una tra le magioni più inquietanti e affascinanti della storia narrativa contemporanea.

Che, per inciso, uno dei prossimi articoli riguarderà proprio le case infestate della narrativa fantastica.
Ma torniamo a Ray, a Cassave a al povero Jiji.


Per sommi capi, si potrebbe definire Malpertuis un Dieci piccoli indiani in salsa weird. Dove gli indiani sono dei loschi personaggi che celano, sotto le pelli conciate, un segreto tanto terribile quanto desolante.


Tutto comincia con un furto.
Come accade in Casa di Foglie, un plico con carte e appunti sparsi capita tra le mani del narratore principale. Che è un ladro e non ne fa mistero. Un ladro, beninteso, ma anche un bibliofilo; un filologo che si è dato al crimine perché la cultura non paga quanto i furti in villa.

Quest'uomo senza nome mette assieme i pezzi di storia tirati fuori dal plico, ed è così che si schiudono le porte di Malpertuis. Ne possiamo percorrere le oscure cavità attraverso il diario di Jean-Jacques “Jiji” Grandsire; le memorie di un laido prete praticante la magia, tale Duocedame il Vecchio e quelle di un abate che finisce, suo malgrado, per ritrovarsi immischiato nella storia.

Isole immerse nella nebbia.
C'è, narra Duocedame il Vecchio, una strana e misteriosa isola dispersa nell'Egeo; un'isola dove creature si agitano tra le nebbie ed elevano al cielo i loro goffi, gutturali lamenti.

C'è, scrive Jean-Jacques nel suo diario, Malpertuis, la dimora dello zio Cassave, nelle cui stanze si aggirano figure dall'aspetto spettrale. È questa un'abitazione perennemente buia, dove le luci delle candele disseminate negli angoli nulla possono contro le tenebre e spesso sono spente da piccoli e malefici spiriti, che si divertono a torturare così un pover'uomo di nome Lampernisse, il quale vive imboscato nella villa da tempo immemorabile.

Immemorabile è anche il tempo che ha vissuto Cassave, che di Malpertuis è il proprietario e che sta, finalmente, morendo.


Cassave è uno di quei deliziosi e sgradevoli vecchi che Jean Ray sa dipingere così bene. Un ostile e cinico alto borghese, dalla lingua tagliente e viziosa il quale, in punto di morte, ordina che i suoi parenti vivano nella villa se vogliono ricevere una rendita cospicua e garantirsi il diritto all'eredità. Che non andrà a tutti, beninteso, ma solo a colui (o a coloro, nel caso di una coppia) che sopravviverà.

Quello che Ray evoca, facendolo sorgere dalle oscurità leziose della villa, dal suo parco privo di vita, dalle stanze glaciali dove la luce penetra a fatica e già livida, è un orrore fatto di sguardi, di cose che si muovono nell'ombra, di sussurri e creature raccapriccianti per abitudini e vizi.

"La facciata era una maschera tetra, dove invano si sarebbe cercato un barlume di serenità. Era un viso stravolto dalla febbre, dall'angoscia e dalla collera, che mal nascondeva tutto l'abominevole che vi si celava. Coloro che passavano nelle sue immense stanza soffrivano d'incubi; coloro che vi passavano le loro giornate dovevano abituarsi alla compagnia di orrendi spettri di suppliziati, di scorticati, di murati vivi... e chissà di cos'altro ancora". [Malpertuis, Jean Ray, trad. di Marianna Basile, Urania Horror n. 12, 2016, p. 40]

Malpertuis è una villa malefica, che sembra possedere una planimetria indefinita e le cui mura, corridoi e scale sembrano mutare a loro piacere, espandendone i confini oltre misura. A suo modo Malpertuis è una cosa viva, un vero e proprio essere vivente nelle cui viscere si muovono e recitano creature che forse vive non lo sono, non del tutto.

Jean Ray sa padroneggiare con affascinante capacità l'oscurità, sa rendere il nero e gli indicibili orrori che nella notte stanno in agguato con periodi che vorticano sulla pagina, e che non nascondono un certo divertimento di fondo.

Se Malpertuis è il centro e il fulcro della storia, non di meno lo è la città in cui si svolgono le vicende del romanzo. Una città che sembra aver assorbito dalla villa i suo poteri, le sue corrotte meraviglie, e che ospita edifici e figure desolanti e terribili.

Una città dove stanno appostate vecchie cieche e sorde e i loro gatti; dove creature d'ombra si danno appuntamento in appartamentini sudici e decadenti sotto la carta da parati color pastello, e dilaniano coloro che non rispettano i patti.


Malpertuis non è un romanzo facile, come nella villa ci sono punti volutamente oscuri; a tratti la storia si contorce come i capelli di una Gorgone, e dalle inquietanti e inesplorate oscurità della villa ci catapulta nel dedalo di viottoli della città senza nome, che sembra mutare per capriccio divino, per non permettere al protagonista di andarsene, di sciogliersi dal vincolo terribile che lo lega alla casa e al vecchio Cassave.
Un vincolo terribile che parla il linguaggio del sacrificio, di una catarsi assoluta e necessaria; Malpertuis racconta nel modo divertito, onirico, raggelante e sofisticato di Jean Ray la fine di un'era; una fine celebrata strappando uno ad uno gli ultimi rimasugli del passato, come erbacce da un giardino incolto.

Ray rievoca e dà corpo alle divinità del passato, gli dà nuovi nomi e li umanizza, rendendo se possibile ancora più toccante la sorte cui li destinano le catene nelle quali li ha avviluppati Cassave. Gioca, Ray, con invidiabile senso dell'umorismo, con le caratteristiche che sono state loro attribuite nei secoli; li muta nelle loro orribili controparti, enfatizzando gli aspetti più gretti e degradanti delle loro divine personalità.

Sono facilmente riconoscibili, queste divinità dimenticate: a cominciare dalla splendida e terribile Euryale, dai capelli rossi che sembrano dotati di vita propria e i magnifici occhi verdi, perennemente velati. Euryale, la meravigliosa e l'orrenda, la vera protagonista del romanzo, pur se relegata nella figura della co-protagonista; la sopravvissuta destinata a uccidere per amore, perché in Ray l'amore non salva ma condanna, e la condanna è tanto più terribile e straziante quanto è stato il sentimento che ha legato i personaggi.


Un'aura di mistero e magia soffia nelle poche pagine del romanzo; vi si avverte tutta la complicità, la confidenza che Ray ha con i suoi personaggi e con la penna. Vero e proprio orafo del linguaggio, Jean Ray illustra sulla pagina immagini e periodi che, pur nella loro squisita raffinatezza, non incedono con la pomposità delle prose barocche ma si muovono sotto gli occhi dei lettori con la grazia di ninfe fatte di parole; e, come lo squallido Philarète, dà forma a personaggi che, anche quando non sono nulla più che supplichevoli burattini, hanno la consistenza, la naturalezza di creature vere e vive e dolorosamente turbate. Creature che non possono sottrarsi al destino che l'autore ha predisposto per loro, un destino fatto di vecchiaia, decadenza, morte e oblio.
"Gli dei muoiono. In qualche punto dello spazio aleggiano i loro cadaveri. In qualche punto dello spazio agonie mostruose si compiono lentamente per la durata di secoli e millenni..." [Malpertuis, Jean Ray, trad. di Marianna Basile, Urania Horror n. 12, 2016, p. 136]

Ps. per ulteriori approfondimenti vi rimando all'articolo del sempre ottimo Obsidian Mirror [Qui]

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2 commenti

  1. Non è un romanzo facile, è vero, ma nemmeno il film è una visione facile. A tratti ti lasci cogliere dallo sconforto che è tipico di quando sai di trovarti davanti qualcosa di più grande di te. Non saprei dirti se è una sensazione che deriva dall'aurea mitologica di Malpertuis (intesa come quella del "romanzo perduto") o se deriva da qualcosa di più oggettivo. Mi chiedo come sarebbe stato se avessimo avuto l'occasione di leggerlo settant'anni fa, quando venne scritto....
    PS: Grazie per la menzione! Troppo buona! ^___^

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    1. Ciao Obsidian. Ho dovuto menzionarti, dato che il tuo post mi ha ricordato il romanzo e, fatalità, qualche giorno prima ero incappata in un racconto di Ray d e l i z i o s o. Non potevo aspettare oltre.
      E poi il tuo blog è da seguire, a prescindere, che ci si trovano un sacco di spunti interessanti.

      Sulla mitologia del romanzo (:°D) sono contenta di essere nata nel decennio della riscoperta della Mondadori, perché altrimenti mi sarei dannata. Probabilmente Ray dà il meglio di sé nei racconti, sulle lunghezze ogni tanto ha bisogno di staccare, tanto che lo stesso Malpertuis è un collage di più storie che ruotano attorno allo stesso oggetto. Ora sto puntando le raccolte di Ray della Hypnos.

      Grazie per essere passato.
      E sempre viva Lampernisse!

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