Accabadora. Michela Murgia. LaRecensione

Titolo: Accabadora
Autore: Michela Murgia
Editore: Einaudi
Tipo: romanzo
Pagine: 166
Edizione: 2009
prezzo: 18€
ISBN  9788806197803

Non leggo, per principio, best sellers. Lo so, non tutti condividono una impostazione del genere, ma i best sellers li evito come la peste. Per lo stesso motivo non vado a vedere film che ricevono da critica e pennivendoli lodi sperticate. E per l'identico motivo guardo con sospetto ai libri muniti di fascetta, ai film pieni di applausi sulle locandine.
Sarà perché, ogni volta che ho addentato un film o romanzo del genere mi sono trovata a masticare bocconi amari e a sputarli senza ritegno.
Dice: invidia dell'aspirante?
No: semplice constatazione che, più una cosa viene spinta dall'industria letteraria (argh!) o cinematografica, meno è consistente il suo valore. In fondo, se un oggetto è bello e meritevole trova da solo il suo pubblico senza bisogno di spinte e spintarelle mediatiche.
Ovviamente ogni tanto mi capita di sbagliare. E allora leggo il best seller ammettendo le mie colpe. Ogni tanto succede.
E' successo con Accabadora, libro preso in prestito dalla biblioteca comunale e terminato in un paio di giorni. 
Fluida la scrittura della Murgia, musicale. Più che un romanzo un racconto lungo, che narra la storia di Maria, figlia ultima e non gradita di una vedova che un po' fa il verso a Mazzarò, il contadino protagonista della novella di Verga La roba. Maria viene ceduta in adozione a Bonaria Urrai, che ufficialmente fa la sarta nel piccolo paese di Soreni ma che, in realtà, viene cercata dai paesani anche per altri servizi quando il tempo è troppo lento e l'agonia si fa intollerabile.
Bonaria Urrai (Tzia Bonaria) è un'accabadora, una figura simile ed equivalente all'ostetrica: tanto questa aiuta la nascita alla vita quanto quella la nascita alla morte. Maria è, insieme ai giovani del paese, una delle poche a ignorare il segreto della sua madre adottiva e quando lo scopre, nel modo meno piacevole possibile, accusa Tzia Bonaria di essere né più né meno che un'assassina e fugge dal paese e dalla casa che l'ha ospitata per tanti anni cercando una nuova vita a Torino.
Ma neanche così lontano riuscirà a trovare la pace e quando riceve da una delle sorelle la notizia che Bonaria è irrimediabilmente paralizzata, vittima di un ictus, torna indietro, per prendersi cura del fisico e dello spirito della donna che, nonostante tutto, ama come una madre. E si troverà ad affrontare una scelta, in bilico tra pietà e rigore morale.
La Sardegna è quella degli anni Cinquanta, un periodo a metà di un secolo, un'Italia in attesa di varcare la soglia della modernità, ancora aggrappata a riti ancestrali, vita contadina, credenze radicate nel tempo e nella terra.
La Murgia ha uno stile scarno e poetico, leggere questo lungo racconto è stato come leggere un libretto d'opera. Bella la figura di Tzia Bonaria quanto rigida e umana quella di Maria, nome non casuale, dato che la prima immagine che viene in mente leggendo queste pagine è la figura della Pietà di Michelangelo.
Alla storia principale se ne intrecciano altre, che raccontano di superstizioni e fatture, di furti e orgoglio, di scuole di campagna e di bambini distrutti dal silenzio e dalla paura degli adulti.
Un racconto lungo complesso come un romanzo breve, una lettura piacevole che lascia dentro qualcosa.
Voto dei mostrilli: 

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